lunedì 28 gennaio 2013

Libri. Diambarne de l'ostia...!

Non tutti i bastardi sono di Vienna
di Andrea Molesini

Questo romanzo di guerra è ambientato a Refrontolo, comune in provincia di Treviso, e per la precisione a Villa Spada (esiste davvero, accanto alla chiesa del paese), nei 12 mesi dell’invasione austro-tedesca del 1917-1918 seguenti alla disfatta di Caporetto. Uno dei periodi più bui della storia d'Italia, tanto che il termine è passato in uso nel vocabolario comune per indicare una disfatta sia morale che materiale. L'esercito italiano fu travolto dai reparti austro-ungarici rinforzati anche da truppe d'elite germaniche. I nostri soldati furono fatti a pezzi e il comandante in capo Generale Cadorna non trovò di meglio che accusarli di viltà di fronte al nemico. Fulgido esempio di scaricabarile e rifiuto delle responsabilità. Il Friuli e il Veneto fino alla linea del Piave furono invasi dalle forze nemiche e i territori occupati e saccheggiati come bottino di guerra. In questo romanzo di Andrea Molesini (Premio Campiello) si intrecciano orgoglio, patriottismo, odio, amore: passioni vere, naturali e antiche che si mescolano e si scontrano tra loro sotto il dominio di truppe nemiche. La vicenda, narrata in prima persona dal giovane Paolo, si svolge pressochè interamente a Villa Spada, dimora signorile di un paesino a pochi chilometri dal Piave, nei giorni compresi tra il novembre 1917 e l'ottobre 1918: siamo nell'area geografica e nell'arco temporale della disfatta di Caporetto e della conquista austriaca. Nella villa vivono dei signori del posto: il nonno Guglielmo Spada, il capofamiglia che però lascia gestire tutto a sua moglie "nonna" Nancy, colta e ardita; la zia Maria, che tiene in pugno l'andamento della casa; lo stesso Paolo, diciassettenne, orfano, nel pieno dei furori dell'età; la giovane Giulia, procace e un po' folle, con la sua chioma fiammeggiante. E si muove in faccende la servitù: la cuoca Teresa, dura come legno di bosso e di saggezza stagionata; la figlia stolta Loretta, e il gigantesco custode Renato, da poco venuto alla villa. La storia, che il giovane Paolo racconta, inizia con l'insediamento nella grande casa del comando militare nemico. La villa viene requisita per l'alloggio degli ufficiali e per farne il quartier generale. Il paese viene saccheggiato di senza pietà. Un crudo episodio di violenza su fanciulle contadine del villaggio accende il desiderio di rivalsa. Una reazione si impone per contrastare per quanto possibile l'occupazione degli invasori. I personaggi delineano in pieno la loro personalità di fronte alla situazione. Ma su tutto domina il senso di impotenza e di umiliazione nel vedere la propria casa occupata e oltraggiata. I signori e padroni della villa diventano ospiti in casa propria: a comandare sono gli invasori e non resta che adeguarsi, almeno in apparenza. Infatti la reazione patriottica e di rivalsa orgogliosa degli occupati c'è, dapprima segreta e strisciante, per poi uscire alla luce del sole ed è quella che poi porta all'epilogo tragico della vicenda. Un conflitto dove a comandare sono amore e odio, rispetto e vittoria. E resta un senso di impotenza e di oppressione di fronte alla forza delle armi che si arroga il diritto di vita e di morte.
Per chi come me vive in Veneto, l'ambientazione di questo romanzo aggiunge un pizzico di sale alla semplice narrazione, laddove si descrivono luoghi e circostanze. Tutti veri e reali. Le più grandi battaglie della Prima Guerra mondiale si sono svolte proprio in questa terra lasciando una scia di sangue terribile, testimoniata da monumenti eretti a ricordo di quelle vittime e di quegli eroi che persero la loro giovane vita per opporsi al nemico.
Vedi anche: http://volpe56.blogspot.it/2011/05/in-moto-pd-rovereto-valli-del-pasubio.html


File:Battle of Caporetto IT.svg
Mappa dello spiegamento di forze nella battaglia di Caporetto

domenica 27 gennaio 2013

Film visti. Lincoln, Spielberg e tanti sbadigli

Lincoln

     
Regia di Steven Spielberg.
Con Daniel Day-Lewis, Sally Field, David Strathairn, Joseph Gordon-Levitt, James Spader.
 
[Voto: 2 su 5]
 
Accidenti che delusione. Prima di entrare in sala, anzi già mentre stavo andando al cinema, mi sono chiesto che cosa avrei dovuto aspettarmi da questo film. Il titolo e quel che avevo letto sul film diceva già tutto: il presidente Lincoln e l'abrogazione della schiavitù in America. "Che cosa avrà escogitato il maestro Spielberg per meritarsi ben 12 nominations all'Oscar 2013"? Ma, fatta questa premessa, rimane la delusione per un non-film da Oscar. Due ore e mezzo di verbosi e francamente poco interessanti discussioni sulla politica americana di metà ottocento, quasi tutta la vicenda girata in interni alla luce di lampade a petrolio, la costruzione di un lincoln-icona-mistica con un contorno di mezze tacche di scarsa personalità politica. Il tutto con tanta tanta enfasi pari almeno alla bravura tecnica cinematografica di Spielberg. Tutto questo giustifica le 12 nominations? Mah...
La sensazione -deludente assai- è di aver visto un documentario sugli ultimi mesi di vita del presidente e sull'iter romanzato dell'approvazione del XIII emendamento, trattative e mercanteggiamenti con l'opposizione compresi. Intendiamoci, un documentario girato in maniera magistrale, tecnica splendida, interpretazione attoriale altrettanto memorabile (Day-Lewis straordinario), ma pur sempre un documentario. Lincoln ne esce come un'icona, un'immaginetta mistica, che per perseguire il suo nobile scopo (far cessare una sanguinosissima guerra civile attraverso l'abolizione della schiavitù) deve gestire e domare una mandria di deputati basettoni boriosi e zoticoni, disponibili al miglior offerente. E per farlo non si ferma di fronte a nulla, praticando principalmente la coercizione morale e un disinvolto uso della verità, a dimostrazione che gli insegnamenti di Machiavelli, "il fine giustifica i mezzi", sono e saranno imprescindibili da qualunque attività politica.

giovedì 24 gennaio 2013

Sogno o son desto...?

Staminali: uomo perde naso, glielo fanno ricrescere su un braccio












Londra, 24 gen. - Un gruppo di scienziati britannici ha ricostruito in laboratorio un naso nuovo di zecca, grazie alle cellule staminali coltivati sul braccio di un paziente. Una volta pronto, il naso verra' rimosso e trapiantato sul volto dell'uomo. Il paziente di 56 anni, che aveva perso il naso a causa di un tumore, potrebbe essere quindi il primo a beneficiare di una cosi' eccezionale ricerca, coordinata dall'University College di Londra e riportata sui media di tutto il mondo.

Il naso nuovo, oltre ad avere anche l'aspetto di quello vecchio, che era leggermente storto, dovrebbe anche essere funzionale, cioe' dovrebbe restituire al paziente il senso dell'olfatto.
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Ho riletto la notizia almeno un paio di volte prima di capacitarmi di ciò che leggevo. Stentavo a credere ai miei occhi. E non è che adesso ci creda proprio del tutto. Mi sembra una cosa talmente surreale da assomigliare più ad una barzelletta che ad un fatto reale. Ma ve lo immaginate un tizio con un naso sul braccio invece che in faccia in mezzo agli occhi? Sono basito.
E se la prossima volta non si trattasse del naso, ma di qualche altro organo del corpo umano? Lascio a voi, amici, la scelta di quale potrebbe essere...

A margine mi viene in mente una riflessione attribuita a Isaac Asimov (se non sbaglio), secondo cui "se un giorno dovessimo mai entrare in contatto con una forma di vita aliena extraterrestre, per poterci stupire della loro tecnologia più evoluta della nostra, dovremmo fare riferimento alla magia". Ovvero: oltre un certo limite scientifico-tecnologico si sconfina nel magico. E aggiungerei che a questo punto entrerebbe in ballo un bell'argomentare su tutta la tradizione miracolistico-religiosa. Nell'ottica di un naso che ricresce su un braccio, che dire di un cieco che riacquista la vista o di un lebbroso che guarisce...?


lunedì 21 gennaio 2013

Film visti. Django secondo Tarantino



DJANGO Unchained
Regia: Quentin Tarantino
Con Jamie Foxx, Leonardo Di Caprio, Christoph Waltz, Samuel L. Jackson, e altri...

[Voto: 4 su 5]

La vendetta è un piatto che si consuma freddo e i tempi dilatati della narrazione che Tarantino sceglie di utilizzare per giungere alla resa dei conti finale sono perfettamente funzionali al presupposto iniziale. Due ore e tre quarti di film per raccontare la storia di Django (la "d" è muta...), uno dei milioni di schiavi dell'America ante guerra civile 1860, brutalmente utilizzati come forza lavoro a costo zero, senza diritti e senza speranze, alla stregua di cose o animali. Un bene di proprietà di latifondisti che rivendicavano il diritto di farne ciò che volevano. Nella sua triste esistenza Django si imbatte in uno strano tipo che si spaccia per dentista, ma che in realtà è un bounty killer, un cacciatore di taglie che ammazza i ricercati per incassare le taglie che gravano sulle loro teste. Un lavoro come un altro per il dottor Schultz che, da buon tedesco, svolge il suo compito in maniera sistematica, meticolosa e sanguinaria, senza lasciare nulla al caso e senza pietismi sentimentali di sorta. La fortuna di Django è di poter riconoscere tre ricercati che si celano sotto falso nome in una delle piantagioni di cotone del profondo sud degli Stati Uniti. Per questo Schultz libera il povero nigger proponendogli un accordo. Una collaborazione nello smascherare i tre banditi in cambio della libertà. Il piano ha successo e la collaborazione tra i due diventa sempre più stretta fino a puntare in alto, ovvero alla ricerca e liberazione della moglie di Django, anch'essa ridotta in schiavitù, ma finita chissà dove. Da qui si dipana la vicenda fino all'epilogo finale in un crescendo di senza esclusioni di colpi e di sparatorie sanguinose e raccapriccianti. Questa è una delle accuse che vengono mosse a Django e a Tarantino in genere. L'eccesso quasi compiaciuto di violenza. Va detto, a mio modesto parere di antico consumatore di cinema, che la violenza di Tarantino è pacchianamente finta, fasulla, da esibire per fare scena. Perchè il cinema è scena, è rappresentazione, è finzione. Ai nostri bambini da secoli raccontiamo storie orripilanti di vecchie nonnine divorate da lupi cattivi, eppure nessuno grida allo scandalo o si strappa i capelli per eccesso di violenza. Tarantino a ben vedere fa la stessa cosa. I morti, le sparatorie, i ferimenti stanno a Django come il lupo cattivo sta alla fiaba di Capuccetto rosso. Ma non solo di eccesso di violenza si accusa il vecchio Quentin. Spyke Lee, altro grande regista americano, ha aspramente criticato Django per il modo in cui tratta il razzismo e i nigger afro-americani. Peccato che la critica ("Non andrò a vedere il film di Tarantino") sia venuta prima dell'uscita del film stesso e viene da domandarsi su quali basi Spyke abbia formulato il suo giudizio. A sospettare che ci sia un'abbondante razione di pre-giudizio non si sbaglia affatto.

Il film, pur distaccandosi totalmente nella trama, è un omaggio all'omonimo Django di Sergio Corbucci (1966), antesignano e/o capostipite del filone del western-spaghetti, che tanto piace a Quentin Tarantino per il suo contenuto diretto e crudo. "Ford aveva John Wayne, Leone aveva Clint Eastwood, io ho Franco Nero". Con questa frase, Corbucci presentava nel lontano 1966 un ambizioso ed allora esordiente attore, Franco Nero, l'interprete del Django d'epoca (che appare in una chicca anche nel film di Tarantino).Un vero e proprio genere che ha avuto negli anni 60 e 70 il suo periodo d'oro per il cinema italiano. Produzioni a basso costo, ma di alta resa al botteghino proprio per i contenuti volgarotti e caserecci dal sapore paesano. Un successo enorme anche all'estero, dove evidentemente affascinava il connubio western americano & spaghetti italiani. Una commistione tra la classica commedia all'italiana e l'altrettanto classico western alla John Wayne. In apparenza due filoni inconciliabili che invece con Corbucci & soci ebbe in quell'epoca il suo grande boom internazionale. Del Django originale questa opera di Tarantino mantiene alcuni brani della colonna sonora che, appena sentiti, tornano immediatamente alla memoria, come magicamente rispolverati in qualche anfratto dimenticato del cervello. Certo, bisogna avere i capelli grigi e qualche annetto sulle spalle per tornare indietro a quell'epoca cinematograficamente così naif e non propriamente dietro l'angolo...
Quentin Tarantino è uno dei più grandi registi contemporanei, ma non solo. E' un grande anche come sceneggiatore e costruttore di storie, tutte funzionanti alla perfezione come sofisticati meccanismi ad orologeria. Il cinema di Tarantino è il cinema dell'eccesso, con le sue situazioni grottesche e la sua violenza sempre sopra le righe. La peculiarità del cinema tarantiniano è lo splatter, l'immagine cruda non filtrata da manierismi o buonismi di sorta, che colpisce allo stomaco lo spettatore. Il suo capolavoro indiscusso è senza dubbio Pulp fiction, che è un vero e proprio gioiello di sceneggiatura, con una storia che si basa sulla circolarità della vicenda. Si comincia la visione del film da un certo punto e con una certa sequenza e si finisce, due ore e mezzo dopo, esattamente dove si è iniziato, stessa sequenza stessa situazione. Splendido, geniale. Anche in Django la sceneggiatura è perfetta; la storia è narrata con una consecutio temporum irreprensibile pur concedendosi dei salti narrativi, dei brevissimi flash back di pochi secondi che Tarantino usa per rafforzare alcuni passaggi particolari della vicenda dello schiavo liberato. Ma nulla del racconto della vendetta di Django è inutile, posticcio o ridondante. Tutto è funzionale alla vicenda e al raggiungimento dell'epilogo finale. Se proprio bisogna muovere una critica è forse quella della mancanza di uno o più colpi di scena. Quel qualcosa che non ci si aspetta e che scompagina l'attesa dello spettatore. Tutto è talmente calibrato che Tarantino non sente il bisogno di nessun colpo di scena veramente imprevedibile. La storia è di per se appassionante, così come è congegnata e narrata. Tarantino si ama o si odia. E io, modestamente, lo amo.

Mostri di bravura gli attori protagonisti, da Jamie Foxx a Leonardo Di Caprio, da Christoph Waltz a Samuel L. Jackson. Più una serie di piccole chicche di altri grandi attori in piccolissime parti che vale la pena di andarsi a cercare una ad una per conto proprio. Buon divertimento.

domenica 20 gennaio 2013

La fuga di Corona. Almeno salvare la faccia...



Ahahahah... verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere. Fabrizio Corona si vede confermare la condanna a cinque anni e per lui si aprono le accoglienti celle di un carcere. E invece che ti fa il furbastro? Scappa. Ma possibile che nessuno avesse preso provvedimenti cautelari in previsione della sentenza? Il personaggio spregiudicato e pronto a tutto non lasciava intuire un epilogo simile? Che figura da dilettanti....!!!
Che sia latitante all'estero o nelle patrie galere l'importante è che abbia finito di infestare l'Italia con la sua odiosa presenza. Purtroppo in certa opinione pubblica l'impresa di Corona fa già breccia. Ecco un esempio.
Ieri sera in auto verso le sette sentivo la radio, uno dei network nazionali che vanno per la maggiore. Il dj e il suo collega in trasmissione tra un disco e l'altro ha citato il fatto di cronaca con piglio divertito. Ma ha minimizzato e giustificato la fuga di Corona dicendo senza mezzi termini "hai fatto bene, restare e farti prendere non valeva la pena...  se sei all'estero non hai perso niente di che dell'Italia...". Pazzesco. La mamma degli imbecilli come al solito è sempre incinta.

Però io spero vivamente che per non sentirsi presi ulteriormente in giro da un troglodita come Fabrizio Corona e per rimediare seppur tardivamente alla figuraccia, le forze dell'ordine e la magistratura dovrebbero reagire catturandolo ovunque si sia nascosto. Almeno per salvare la faccia. Ma davvero si aspettavano che si lasciasse ammanettare e portare in galera senza scappare?

Aggiornamento 24/1/2013. La fuga di Corona è finita, si è consegnato alla polizia portoghese quando ormai era braccato da quella italiana che lo aveva rintracciato grazie al gps dell'antifurto della sua macchina. Ridicolo anche questo. Farsi prendere per non aver staccato il gps...
Comunque le forze dell'ordine hanno fatto un buon lavoro e dunque la faccia l'hanno salvata dopo la brutta figura della fuga (quasi) sotto gli occhi.
Quanto sia patetica la fisionomia del personaggio Corona ce lo rivela, qualora ce ne fosse bisogno, un particolare. Una volta in manette, come di regola, l'arrestato ha la possibilità di fare una telefonata. A chi avrà telefonato Corona? Alla famiglia, all'avvocato, alla fidanzata, a un amico fidato? No! al TG Studio Aperto di Italia uno per far sapere ai suoi fans che si era consegnato.... Una vita venduta all'apparenza, al futile, al frivolo. E per di più minacciando querele a carico di chi si azzardi a dire che si è messo a piangere una volta arrestato e in manette.... Patetico o irrimediabilmente idiota? Sullo stesso livello di idiozia devono navigare i fans che in facebook e in twiter fanno il tifo per lui. Mi piacerebbe conoscerne uno di questi fantomatici fans di Corona. Per vedere che faccia ha uno che venera un imbecille del genere.
Adesso in carcere forse qualcuno insegnerà per le vie spicce al bel Corona che esistono altri mondi e stili di vita oltre al gossip e al look da tronista tamarro....

sabato 19 gennaio 2013

Motor Bike Expo 2013, donne & motori che passione



Ieri ha aperto i battenti il Motor Bike Expo 2013, una rassegna dedicata al mondo delle due ruote inizialmente nata a Padova e poi trasferitasi (ma c'è chi dice "scippata") a Verona. In ogni caso uno degli appuntamenti più importanti dell'anno, insieme al Motoshow di Bologna e all'EICMA di Milano. L'ambiente è sempre quello luccicante e rutilante del mondo dei bykers. Nei padiglioni fieristici c'era di tutto, ma il clichè più gettonato era giubbotto di pelle nera, capello lungo grigio legato a coda di cavallo, jeans o pantalone di pelle, stivaletto country e birra in mano. Questo perchè fra i sette stand della manifestazione la più parte era dedicata al settore custom, con la parte del leone svolta da Harley-Davidson e da una miriade di piccole aziende semi artigianali che elaborano e rielaborano modelli custom, adornandole con miriadi di cromature e modanature multicolori, improbabili manubri, o selle piccolissime su cui è difficile immaginarsi per più di un'oretta alla guida della moto. Nonostante i comunicati stampa e la pubblicità martellante mi è sembrata una manifestazione più che ordinaria. Poche o nessuna le grandi novità. Detto dell'eccesso di custom (una volta si chiamavano chopper...) bellissime e luccicanti almeno quanto quasi inguidabili l'attenzione era dedicata alle moto più "normali".
La modella Peugeot, la più bella dell'Expo veronese
C'era di che affascinare gli occhi con modelli splendidi e desiderabili almeno quanto una bella donna. Il capitolo "donne" va affrontato a parte. E' noto che una delle attrattive maggiori di una rassegna motoristica sono le modelle che abbelliscono e impreziosiscono gli stand espositivi. L'Expo di Verona non fa eccezione e le modelle hanno svolto il loro compito con ammirabile pazienza e disponibilità. Sempre pronte a mettersi in posa e farsi fotografare generosamente. Una mostra nella mostra, tanto che verrebbe quasi voglia di fare una classifica delle più belle. Detto fatto. Per me la vincitrice, a mani basse e con molte lunghezze di distacco, è la modella della Peugeot. Infilata in una tutina nera aderentissima che metteva in evidenza curve elegantissime e da manuale per dimensioni e proporzioni. Un viso aperto e naturalmente sorridente. Bellissima. Una grossa delusione invece per la scarsa presenza dei marchi italiani. C'era solo la Ducati, mancava Moto Guzzi, Aprilia, Piaggio, Morini, e tutti gli altri. E io che ero andato quasi solo per il nuovo California 1400....! Che delusione.

A conclusione della giornata, tra piadine con la salsiccia e hot dog giganti, rimane una stanchezza incredibile. Andar per stand in fiera ad ammirare moto & modelle stanca. Eccome se stanca. Ma ricomincerei domani....!

Motor Bike Expo 2013, cartoline dalla fiera


 

 
   Motor Bike Expo 2013, cartoline dalla fiera
 
Motor Bike Expo 2013, cartoline dalla fiera
 
Motor Bike Expo 2013, cartoline dalla fiera

Motor Bike Expo 2013, cartoline dalla fiera
Motor Bike Expo 2013, cartoline dalla fiera

Motor Bike Expo 2013, cartoline dalla fiera
Motor Bike Expo 2013, cartoline dalla fiera
Motor Bike Expo 2013, cartoline dalla fiera
Motor Bike Expo 2013, cartoline dalla fiera
Motor Bike Expo 2013, cartoline dalla fiera

domenica 13 gennaio 2013

Film visti. Cloud atlas, filosofeggiando a spasso nel tempo

Cloud atlas

Regia: Tom Tykwer, Andy Wachowski, Lana Wachowski

Con Tom Hanks, Hugo Weaving, Ben Whishaw, Halle Berry, Jim Sturgess, Susan Sarandon, Hugh Grant e altri...

[Voto: 3.5 su 5]



Cluod atlas è un film che può piacere o non piacere, annoiare o commuovere, ma certamente non lascia indifferenti. E' anche un film di difficile approccio perchè impegnativo e complicato da seguire nella trama che interseca più vicende in un arco temporale di circa cinquecento anni sviluppando molteplici rami narrativi paralleli collocati dal XIX al XXIV secolo (anni 1800-2300). Passato, presente, futuro.
Sei storie si svolgono in parallelo anche se ambientate in sei epoche diverse, come se fossero presenti in un'unica dimensione senza tempo. Il montaggio le propone alla visione dello spettatore alternate l'una all'altra senza un ordine preciso. A metà ottocento un avvocato americano si adopera contro la schiavitù, negli anni '30 un giovane compositore bisessuale viene incastrato da un famoso autore prossimo al pensionamento presso il quale lavora, a San Francisco negli anni '70 una giornalista cerca di svelare un complotto per la realizzazione di un reattore nucleare, ai giorni nostri in Inghilterra un anziano editore viene incastrato e internato in una casa di cura da cui cercherà di fuggire, nella Seul del 2144 un clone si unisce ai ribelli antigovernativi e scopre il triste destino che attende lei e le sue simili e infine nel 2321 in una Terra ridotta all'età della pietra da una non ben identificata apocalisse un uomo entra in contatto con i pochi membri di una civiltà tecnologicamente avanzata e si ribella alla sanguinaria tribù dominante. Facile comprendere perchè ho parlato di film difficoltoso e impegnativo... Il montaggio delle diverse storie infatti non è per nulla regolare e salta di storia in storia, alle volte lasciando diversi minuti ad ognuna, altre rimanendo con essa solo pochi secondi. Faticoso, ve lo garantisco.
Ma come se non bastasse, a rendere più ingarbugliata e ardua l'esposizione risulta determinante la scelta registica di utilizzare gli stessi attori per più e più ruoli. Giocoforza riveste un ruolo fondamentale il trucco con il quale gli interpreti impersonano i diversi ruoli nelle diverse epoche. Un impegno in più per lo spettatore. I titoli di coda (per chi avrà la pazienza di attardarsi in sala) rivelano anche chi siano gli interpreti di ruoli secondari col risultato che si scopre che sono sempre gli stessi dei ruoli principali. Impresa camaleontica. Ho cominciato a capirci davvero qualcosa in tutto l'intreccio di storie e situazioni solo dopo metà film (dura circa tre ore...!). Una faticaccia. La regia è affidata a un team di ben tre autori che si dividono i compiti. Tom Tykwer si occupa delle storie che si svolgono negli anni '30, '70 e nella contemporaneità, mentre i fratelli Wachowsky (ricordate la saga di Matrix?) hanno scelto le due storie future e quella che si svolge nel XIX secolo. Il risultato è una mancanza di omogeneità e un taglio differente che certamente non giovano al film. Molto più fantastici e onirici i Wachowsky, più elementare e pragmatico Tykwer.
Ma qual'è il filo conduttore che lega tutta la matassa enorme di storie e di personaggi? Incominciamo col dire che l'atmosfera è molto new age, molto metaforica e filosofeggiante. Personalmente non lo considero esattamente un pregio.... anzi il sapore che rimane a film finito è piuttosto pretenzioso. Esagerato in tutto, col risultato di essere alquanto indisponente per i miei gusti.  Nell'arco del tempo della lunga narrazione gli esseri umani di ogni epoca sono comunque sempre occupati a lottare tra di loro, ad aggredirsi e/o a difendersi. Pesce grande mangia pesce piccolo, sempre e comunque. Anche l'idea del perseguimento della libertà permea le varie storie, dal marinaio nero ridotto in schiavitù nell' America dell'800, ai cloni usati per il benessere (e non solo) degli esseri umani "geneticamente normali" nel XXIV secolo. “La nostra vita non ci appartiene. Da grembo a tomba, siamo legati agli altri", un legame indissolubile marcato registicamente dall'uso degli stessi attori che finisce per acquistare un che di trascendente. Una porta aperta su reincarnazione, metempsicosi e vita nell'aldilà (dice ad un certo punto un personaggio: "Per me la morte è una porta che si apre su un'altra porta e poi un'altra ancora...."). Tutto è connesso, recita il sottotitolo italiano. Ma così come ci viene mostrato nell'arco di cinque secoli in cui la  spietata storia di lotta e sopraffazione si ripete è facile immaginare che così sarà per sempre anche in futuro. In definitiva Cloud atlas si può leggere come il pretenzioso racconto della Storia dell'Uomo (con le lettere maiuscole!) con un'opera cinematograficamente immane che coniuga spazi e tempi diversi, tra passato, presente e futuro. Francamente un po' troppo, per i miei gusti. Ma forse (forse!) a legittimare il sospetto che sia effettivamente eccessivo come proposito, ci viene in aiuto una riflessione sul titolo stesso del film (ma anche del libro di David Mitchell). Cloud atlas, atlante delle nuvole, è un'invenzione, un artificio, un non-oggetto. Le nuvole sono per definizione l'evanescenza assoluta, impalpabili, immateriali, volubili. Un soffio di vento, una corrente ascensionale, una variazione termica e le nuvole si modificano, si spostano, si dissolvono o addirittura si trasformano in pioggia. Potranno mai essere mappate su un atlante?
P.S.:  Halle Berry è di una bellezza che riempie gli occhi....

mercoledì 9 gennaio 2013

Film visti. Lo Hobbit ...che barba, che noia!



Lo Hobbit
Regia di Peter Jackson
Con Martin Freeman, Cate Blanchett.

[Voto: 2 su 5]

Ambiantazione paesaggistica da favola, locations naturalistiche meravigliose, trucco e parrucco strepitoso, buone prove attoriali (almeno per quei pochi che non recitano celati da mascheroni di silicone), regia di spessore e ipercollaudata. Tutto bene, tutto di prima scelta, ma il film è di una noia mortale. Tutto tanto bello quanto già visto nella trilogia dell'anello dello stesso Jackson. Fatte salve alcune situazioni più movimentate (poche su tre ore di pellicola) sia come trama che come azione, tutto il resto è un verbosissimo infinito chiacchiericcio di nasoni, barbe finte, volti deturpati e/o mostruosi. Un bla bla bla insopportabile e stucchevole di Thirr figlio di Thorr, nipote di Tharr... e via elencando all'infinito.
Dopo quasi tre ore di noia i titoli finali sono quasi una liberazione. Poi non dite che non ve l'ho detto....

domenica 6 gennaio 2013

Film visti. La migliore offerta (non si può mai sapere...)

Locandina La migliore offerta
La migliore offerta
Regia di Giuseppe Tornatore.
Con Geoffrey Rush, Jim Sturgess, Sylvia Hoeks, Donald Sutherland, Philip Jackson.

[Voto: 3,5 su 5]

 "Vivere con una donna è come partecipare ad un'asta. Non sai mai se la tua è l'offerta migliore". E' il segretario personale del protagonista de La migliore offerta a pronunciare la frase. Ed è un po' il leit motiv, una chiave di lettura del film stesso. Sì, perchè tutta la vicenda narrata da Giuseppe Tornatore che torna sugli schermi dopo il suo monumentale Baaria, è un continuo crescere e aggiungersi di elementi narrativi che non si sa mai se siano reali o posticci, definitivi o interlocutori. Un po' come la ricostruzione dell'automa meccanico che fa da liaison del racconto. Ma andiamo con ordine.
Geoffry Rush (perfetto) è un attempato antiquario e battitore d'asta internazionale, Uno che maneggia tutti giorni grandi opere d'arte per sè e per le grandi gallerie e case d'asta. E' una persona con qualche problema psicologico, usa sempre dei guanti per non avere contatti diretti con gli oggetti potenziali veicoli di infezione, vive in aurea solitudine senza affetti e senza frequentazioni con chicchessia, non ha mai avuto una donna al suo fianco. Ma nel suo campo è un'autorità riconosciuta. Un luminare. Infatti è a lui che si rivolge una benestante proprietaria di una villa ricolma di oggetti d'arte appartenuti alla famiglia di cui lei è ormai l'ultima rimasta. Il compito dell'antiquario e catalogare tutti i beni, farne una valutazione e porli in vendita al fine di realizzare una cospicua somma. Ma c'è un problema. La giovane proprietaria (Sylvia Hoeks) è sfuggente, evita contatti diretti, non si fa mai vedere, in pratica un fantasma. Dopo avergli dato buca ad un paio di appuntamenti il rapporto di lavoro fra i due sembra destinato a cessare, fino a quando l'antiquario scopre che la ragazza ha un problema psicologico simile al suo. Evita deliberatamente i contatti con gli altri arrivando a vivere chiusa in casa senza vedere nessuno da oltre una decina d'anni. Tutta questa vicenda desta la curiosità dell'anziano collezionista d'arte che si prende a cuore sia la ragazza che la conclusione dell'affare. In breve da cosa nasce cosa e sboccia addirittura l'amore fra i due. E' opportuno che mi fermi qui perchè da ora in poi si sviluppa l'intrigo che regge tutta la vicenda.
Sylvia Hoeks - 61st Berlin Film Festival - 'Coriolanus' Premiere
Sylvia Hoeks
Dunque siamo di fronte ad una trama alquanto misteriosa che ad un certo punto vira verso una romantica storia d'amore tra un vecchio e una giovane, bellissima ragazza tanto (troppo?), più giovane di lui. Se non fosse che il film è stato scritto e girato in tempi non sospetti verrebbe da pensare che possa avere riferimenti reali con famosi personaggi di attualità....  Un amore impossibile? Altrettanto romanticamente la risposta sarebbe che no, l'amore può benissimo sopravvivere alla enorme differenza d'età. E infatti fra i due innamorati le cose vanno a gonfie vele...
Tutta la vicenda si costruisce a incastri così come un abile meccanico restauratore (Jim Sturgess), amico e confidente di Geoffry Rush, riesce a riportare in vita un automa meccanico del '700 che l'antiquario rinviene fatto a pezzi tra le cianfrusaglie della vecchia casa patrizia. Un tassello dopo l'altro fino a che, ingranaggio dopo ingranaggio, il meccano non riprende forma e vita. Parallelamente anche la storia prende forma e fisionomia, si delinea nei suoi aspetti e si avvia verso la conclusione. Che ovviamente non si può anticipare.

Il film segna un cambiamento in Tornatore che da Baaria, film di grande respiro storico e tematico volto al politico e al sociale della sua Sicilia, si rivolge a temi molto più universali come ad esempio l'amore. Un cambiamento di rotta che non nuoce affatto perchè Tornatore è autore in grado di spaziare senza difficoltà in entrambi i campi e questo film lo dimostra appieno. Ottimi gli interpreti tra cui spicca Geoffry Rush per il modo in cui riempie lo schermo con la sua bravura nell'nterpretare il collerico e pieno di sè antiquario, affetto da una non celata vena di misoginia.

venerdì 4 gennaio 2013

Film visti. Jack Reacher, poliziesco classico

Locandina Jack Reacher - La prova decisiva
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Jack Reacher - La prova decisiva            
Regia di Christopher McQuarrie. 
Con Tom Cruise, Rosamund Pike, Robert Duvall, Werner Herzog.
 
[Voto: 2,5 su 5]
 
 
Prendete un libro di successo basato su Jack Reacher, un personaggio limato e collaudato in ben nove libri polizieschi, sbruffone quel che basta, geniale come investigatore, ex militare, super esperto di lotta, lupo solitario e inattaccabile da sentimenti o debolezze che non siano patria e onore; metteteci una star hollywoodiana come Tom Cruise, una sceneggiatura studiata appositamente per valorizzare il personaggio e l'interprete, affiancateli da onesti comprimari bravi ma non tali da oscurare le stelle del cast e illuminate la scena con due guest star quali un mostro sacro come Robert Duvall e il monumentale Werner Herzog (sì, proprio il grande regista tedesco!). Ecco, il gioco è fatto.
Jack Reacher è un film molto professionale e spettacolare (un inseguimento in auto come raramente è dato vederne...), ben costruito nella trama, avvincente nello sviluppo degli eventi. Risultato: incassi alle stelle già nei primi giorni di uscita negli States e poi a seguire anche nel resto del mondo. Due orette rilassanti per gli amanti del genere da passare al cinema senza farsi troppi problemi. Va bene così. 

Libri. L'abito da sposo, uno shock

L'abito da sposo
di Pierre Lemaitre

Dopo il grande successo di Alex (2011), arriva in Italia L'abito da sposo di Pierre Lemaitre. Un libro in realtà uscito in Francia già nel 2009, dove ha registrato un buon successo e vinto anche un premio del settore poliziesco. Evidentemente il boom di Alex ha indotto l'editore a metter mano alla prduzione letteraria di Lemaitre per sfruttare l'onda travolgente del passaparola. Ma a chi ha amato a dismisura Alex poco interessa il quando e il come, perchè non perderà neppure un minuto nell'incominciare a leggere il libro.
 
Questo è l'incipit:
Quella mattina, come molte altre, si è svegliata in lacrime, con un groppo in gola, anche se non ha un motivo particolare per preoccuparsi. Nella sua vita le lacrime non hanno nulla di eccezionale: piange tutte le notti, da quando è pazza. Al mattino, se non sentisse le guance inondate, potrebbe persino pensare che le sue notti siano placide e il suo sonno profondo. Al risveglio, il viso bagnato di lacrime e la gola stretta sono delle semplici informazioni. Da quando? Dall’incidente di Vincent? Dalla sua morte? Dalla prima morte, molto tempo addietro?
Da questo momento in poi divorerete il libro, pagina dopo pagina, fino alla fine... Garantito!
 
Vabbè, mi sono fatto prendere un po' la mano, ma vi assicuro che davvero è difficile fermarsi una volta entrati nell'atmosfera perversa e agghiacciante che pervade tutto il racconto delle disgrazie che capitano alla povera Sophie. Non dirò altro sulla trama perchè tutto ciò che succede è come fosse  la carta di una mano di poker che va scoperta lentamente, un millimetro alla volta e senza precipitazione. Mi limiterò a dire che il primo capitolo si intitola "Sophie" e descrive i fatti così come si susseguono dal punto di vista della protagonista femminile. Il secondo capitolo invece è intitolato "Frantz" e i fatti sono gli stessi del precedente, ma con il punto di vista soggettivo del secondo protagonista. Il terzo e il quarto capitolo li scoprirete voi, per conto vostro...
 

Film visti. La regola del silenzio

La regola del silenzio
Regia di Robert Redford
Con: Robert Redford, Shia LaBeouf, Stanley Tucci, Nick Nolte, Susan Sarandon, Julie Christie.

[Voto: 3 su 5]


Un film per nostalgici, ecco come definirei questo ultimo lavoro di Robert Redford nelle vesti di attore e regista del cinema alternativo americano. Ovvero non le grandi superproduzioni hollywoodiane, ma quel cinema meno grandioso ma spesso più vigoroso e sostanzioso che si vede tipicamente in rassegne come il Sundance festival. Perchè un film "per nostalgici"? Perchè tutto, dalla vicenda agli interpreti, riporta indietro negli anni e neanche pochi. Guardate il cast di grandi/vecchie glorie del cinema americano in cui spiccano la sempre bella Julie Christie, la sempre affascinante Susan Sarandon, l'incartapecorito Robert Redford, l'ingrassato Nick Nolte.
La storia prende l'avvio dalla cattura di Susan Sarandon da parte della FBI, rea confessa di un omicidio di stampo terroristico avvenuto oltre trenta anni prima, in pieno periodo di contestazioni studentesche per la guerra nel Vietnam. Ricordate il periodo dei figli dei fiori, degli slogan planetari tipo "fate l'amore non fate la guerra" ecc.? Ecco, proprio quello. Ma non tutto era peace & love in quel periodo, c'era anche chi pensava di poter fermare l'amministrazione americana a colpi di bombe. Fu l'epoca del terrorismo interno, della minaccia che veniva dalla nazione e non dall'esterno. Dunque il quel clima infuocato degli anni 60, un gruppo terroristico compie una rapina in banca di autofinanziamento. Le cose non filano liscie e ci scappa il morto. Una guardia giurata ci lascia la pelle. Le indagini portano all'individuazione dei colpevoli, tutti appartenenti ad una scheggia impazzita del movimento. Ma nessuno finisce in galera perchè gli appartenenti entrano in clandestinità e spariscono definitivamente dalla circolazione. Sembra una storia ormai dimenticata, quando una delle responsabili della banda di rapinatori (Susan Sarandon) decide di costituirsi. Una crisi di coscienza, il rimorso, la voglia di dire basta con i fantasmi del passato che la perseguitavano da allora. Una tranquilla casalinga insospettabile, ecco come si era trasformata la rapinatrice terrorista di un tempo. Il film è dunque anche un'occasione di riflessione sul tempo e sulla sua capacità di modificare le cose, le persone, i pensieri, le idee. Interessante e affrontato con serenità, nonostante la drammaticità degli eventi narrati. 
L'arresto della rapinatrice/casalinga porta lo sconquasso nel gruppo in clandestinità, i cui componenti hanno tutti una diversa identità, un'attività rispettabile, assolutamente insospettabili confusi nella immensa middle class americana. Ma ci mette il naso un intraprendente giornalista di giornaletto di provincia alle prese con la quadratura del bilancio, che si ritrova tra le mani lo scoop della vita. Ci si butta a capofitto e si insinua tra la banda imboscata e l'FBI che svolge le indagini. Svolge a sua volta delle indagini che lo portano a rintracciare uno a uno gli anziani rapinatori. Eccetera, eccetera...
Il film ricorda molto il riaprire un vecchio album di fotografie e trovarsi a rivivere situazioni morte e sepolte di cui si aveva persa ogni traccia di memoria. Per i rapinatori di un tempo, braccati dalla polizia da un lato e dal giornalista investigativo dall'altro, è anche l'occasione di revisionare fotogramma per fotogramma la loro storia, rivedere criticamente molte delle posizioni dell'epoca. Qualcuno invece nonostante il tempo trascorso difende ancora strenuamente e fieramente quelle idee e quelle azioni (Julie Christie). In una parola, fare i conti con il proprio passato e con la propria coscienza. Robert Redford è l'asse portante di tutta la vicenda, da quando viene stanato come tranqillo avvocato di provincia fino a diventare ricercato numero 1 dell'FBI. Tutto fino al finale niente affatto banale nel colpo di scena, abbastanza prevedibile invece nell'epilogo. Ma non posso dire di più. Da segnalare a margine, ma non poi tanto, il personaggio del giovane e agguerrito giornalista. Ha un rispetto quasi sacrale per la sua professione, per il diritto/dovere di cronaca e l'osservanza rigida del principio di verità. Il che porta a immediatamente a fare qualche paragone con la realtà italiana dove la libertà di informazione e di parola viene stravolta con la libertà di diffamazione. Con l'aggiunta della vocazione al martirio qualora dovesse scapparci una condanna giusta del tribunale... Ogni riferimento a persone o fatti reali della nostra Italia è assolutamente voluto. Ma il collegamento con la nostra realtà italica contemporanea viene anche dall'approccio che nel film hanno gli ex terroristi con le proprie responsabilità storiche, individuali e di gruppo. Il pensiero corre immediatamente a quel triste e losco personaggio che è il terrorista dell BR Cesare Battisti. Pluriomicida riconosciuto e condannato dai tribunali italiani e in fuga all'estero dichiarandosi vittima e martire di persecuzioni politiche. Altri tempi, altri luoghi, altre realtà.

Il film nel complesso è godibile, lento quel che basta per appassionare con gradualità lo spettatore, movimentato quel che basta per tenerlo desto negli sviluppi della vicenda, altrimenti a rischio sonnolenza. Insomma un buon film e un ottimo cast di attori.
Nota. Visto nel periodo natalizio, con sala mezza piena ed età media sopra la cinquantina. In linea con il cast...