mercoledì 30 novembre 2011

Cosa c'è di più bello del sole d'inverno ...in moto

Ok, siamo in novembre, quindi tecnicamente è ancora autunno. Ma il sole di questi giorni è bellissimo. La temperatura esterna si aggira tra 0° e 7-8° nelle ore più calde. Approfitto appena posso per mettermi tranquillo faccia al sole a farmi scaldare dai raggi tiepidi e carezzevoli. In pausa pranzo al lavoro mi ritaglio sempre dieci minuti inn un angolo soleggiato prima di reintarre in ufficio. Mi rigenera, mi appaga e mi riconcilia con me stesso. Inutile dire che approfitto anche per fumare un mezzo toscano.
Domenica mi sono svegliato piuttosto presto, come d'abitudine. Il mio orologio biologico non accetta il fatto che nel fine settimana potrebbe rilassarsi e lascisrmi dormire un po' più del solito. E pensare che una volta mi facevo di quelle tirate di sonno da 8-10 ore continue e anche di più. Adesso invece è raro se supero le sei ore. Invecchiare significa anche questo? Non mi piace affatto.
Dicevo di domenica. Do un'occhiata fuori dalla finestra. Un sole splendido. Il termometro segna zero gradi. Faccio le mie cose. Leggo un po', porto giù Jack a fare la sua passeggiatina del mattino. Si fanno le 8.30. Temperatura quasi 2 gradi. Va meglio. Decido al volo, senza pensarci troppo, sennò va a finire cha cambio idea. Mi vesto di tutto punto "da moto": calzamaglia e maglietta della pelle termiche in tessuto tecnico (chissà che vuol dire). Un bel pile, pantaloni da moto con rinforzi e protezioni anticadute; giacca da moto invernale con imbottitura. Casco, guanti, scarponcini alti in caviglia e via. Peccato non avere gli stivali da moto. Ma non riesco a trovare la mia misura. Mai trovato un 48 in tanti anni. Scarpe da basket a caviglia alta a volontà, ma stivale da moto niente da fare. Ma non ci sono motociclisti con il piede misura 48? Sono l'unico?

Non c'è in giro anima viva. Men che meno motociclisti. Ma sono tutti ancora sotto le coperte a dormire o in pasticceria a sbafare cappuccini e brioches? Esco dalla città e prendo la direzione del mare, verso Chioggia. Da lì imbocco la Romea e proseguo in direzione sud verso il Delta del Po. Ci sono stato anche questa estate, ma faceva un caldo torrido. Almeno trenta gradi in più di oggi. Da un estremo all'altro.
La giacca da moto tiene benissimo il freddo e l'aria. Un paio di gradi in moto sono piuttosto pesantucci da sopportare se l'abbigliamento non è adeguato. Per fortuna non è così e il freddo rimane all'esterno. Anche la carenatura della mia Aprilia Caponord fa il suo dovere e mi ripara in modo eccezionale. Unici punti dove patisco il freddo, i piedi e le mani. Ma è solo per i primi 20 minuti, poi in qualche modo il freddo passa (o sono le mani che si adeguano e reagiscono al freddo?) e tutto procede più che bene, pur trattandosi di temperature proibitive.
Arrivo sul Delta. Il panorama si apre a 360°, l'aria e tersa e trasparente. I colori sono sgargianti. Arrivo sulla spiaggia di Boccasette. Il mare è piatto come l'olio. Non un'increspatura, non un'onda. La temperatura è salita. Siamo a 7-8 gradi almeno. Al sole si sta benissimo. Più ci rimango immobile, più lasensazione di tepore cresce. Il termometro della moto segna effettivamente 8 gradi, ma la sensazione è che siano di più. Mi tolgo la giacca imbottita, il pile è più che sufficiente. Mi trovo un punto comodo per sedermi sulla sabbia, tra le capanne vuote e sprangate di un bar ristorante chiuso per la stagione invernale. Silenzio assoluto. Pace e tranquillità che sembrano quasi palpabili, da poter toccare con mano. Non si sente il rumore del mare, non essendoci onde che si frangono sulla spiaggia. Il vento soffia leggero o quasi inesistente. Neanche i gabbiani sembrano osare di rompere il silenzio e la tranquillità del posto. Fantastico.
Una piacevolezza simile l'ho trovata solo in montagna, nel silenzio delle valli e delle vette imbiancate. Ma è molto più consueto che tanto silenzio regni in montagna. Al mare lo sciabordio dell'acqua sulla riva è quasi inevitabile e fa da sottofondo costante e ineliminabile. Non oggi, non qui a Boccasette. Qui oggi c'è solo silenzio e pace assoluta. Fantastico.

Si fa ora di pranzo. Comincio ad avere fame. Prendo la statale Romea a ritroso e arrivo a Chioggia. Conosco un posticino dove fanno certe mozzarelle in carrozza da far resuscitare un morto. Parcheggio la moto in centro. Sono quasi le 14, i ciosoti sono tutti a pranzo. Il bar rosticceria è semideserto. Mi siedo ad un tavolino all'aperto. In pieno sole, si sta benissimo. C'è anche il fungo a gas che dovrebbe servire a scaldare gli avventori che si siedono all'aperto. Ma non ce n'è bisogno. Ordino due mozzarelle in carrozza calde, appena uscite dalla friggitrice e un bicchiere di cabernet. Roba da far resuscitare i morti... ovvero i motociclisti che viaggiano anche col freddo novembrino. Roba da matti, a ben pensarci. Ma si sa che i motociclisti sono un po' matti.
E poi, cosa c'è di più bello del sole d'inverno ...in moto?

domenica 20 novembre 2011

Film visti. Stai sereno!

Scialla!
Regia: Francesco Bruni
Con: Fabrizio Bentivoglio, Barbora Bobulova, Filippo Scicchitano, Vinicio Marchioni



[Voto: 3,5 su 5]



Il professor Beltrame (Fabrizio Bentivoglio) è un insegnante in disarmo, fancazzista per scelta e per indole. Alternativo e fuori dagli schemi. Ha lasciato l'insegnamento attivo per dedicarsi alle ripetizioni private più agili da gestire e meno impegnative professionalmete.  Arrotionda anche scrivendo "i libri degli altri", ossia biografie su commissione. Veneto (padovano?) trapiantato a Roma da una vita, non ama il calcio, ma gli piace il pallone ovale e tifa per il Cus Padova. E questo già lo rende simpatico... Un certo giorno si fa viva una sua ex, di cui aveva perso il ricordo e le tracce, che gli affida a sorpresa il figlio che lui non sapeva di avere, ma che, guarda il "caso" (?), già conosceva essendo un suo allievo di ripetizioni. Insomma per uno che ha già i suoi problemi esistenziali scoprire all'improvviso l'esistenza di un figlio è un colpo mica da poco...

Questo è il canovaccio su cui si costruisce Scialla! il film di Francesco Bruni premiato all'ultima Mostra del cinema di Venezia con un  premio minore. Un premio meritatissimo, perchè il film è piacevolissimo, ben diretto, ottimamente scritto e ben recitato. Un film deve prima di tutto raccontare una storia e se Scialla! riesce bene in questo compito il merito è senz'altro della sceneggiatura che non è costruita astrattamente a tavolino, ma agganciata alla realtà. Il personaggio di Luca, il figlio un po' guascone e svogliato a scuola, ma vivo e intelligente, è "vero" e potrebbe essere il compagno di classe di uno dei nostri figli in età studentesca. Il tipo è comune e lo si trova ovunque: pantaloni portati bassi a fil di natica con mutanda firmata ben in vista. Camminata a gambe larghe, faccia da schiaffi e sguardo sprezzante. Insomma atteggiamenti da bulletti, ma imberbi. Il linguaggio è alquanto criptico, ma sicuramente per limiti del sottoscritto che non ha dimistichezza con il mondo giovanile adolescenziale contemporaneo. Le mie figlie hanno da tempo superato quell'età e certe terminologie mi sono sconosciute. A cominciare dal titolo che in gergo significherebbe "stai sereno". Sarebbe curioso risalire all'etimologia del termine. A me ricorda "Insciallah", espressione araba (Se Dio vuole) e titolo di un famoso best seller di Oriana Fallaci. Ma dubito che c'entri qualcosa.  Il film è un lungo florilegio di termini in uso tra i ragazzi, mi sfugge se limitato al dialetto romanesco (Luca è romano e il film è ambientato a Roma) o se si tratti di un linguaggio generazionale che va oltre i confini della capitale.
Ma a parte questi particolari di scrittura, il film fila via piacevole e accattivante, per tutta la sua durata. Bentivoglio è sempre il solito gigione, con la sua parlata simil-veneta che sembra voglia sempre prenderti per i fondelli, il giovane attore che fa Luca è credibilissimo e, anzi, sembra preso direttamente da un liceo romano e teletrasportato sul set cinematografico. Da antologia i dialoghi surreali sulla doppia penetrazione e il pompino stereofonico tra il professor Beltrame/Fabrizio Bentivoglio che si guadagna da vivere scrivendo la biografi dell'ex pornostar Tina/Barbara Bobulova. Nessun eccesso, nessuna volgarità, ma dialoghi intelligenti e frizzanti. In una parola: veri.
Come vero e credibile è tutto il film, cosa rara e decisamente apprezzabile, pur trattandosi di una commedia. E solitamente le commedie per il cinema italiano sono tutt'altro che agganciate alla realtà e credibili.
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Libri. Calma apparente a Fjällbacka

LO SCALPELLINO
di Camilla Läckberg










Fjällbacka, località turistica estiva della Svezia sud occidentale. Affacciata sul mare, in lontananza probabilmente nelle giornate serene e limpide si possono scorgere le coste della vicina Danimarca. Più a nord il confine con la Norvegia. Un posto bellissimo, anche se desolato per 10 mesi l'anno, neanche mille gli abitanti residenziali.
Un piccolo angolo di paradiso in una terra ghiacciata nella brutta stagione dove la scrittrice Camilla Lackberg ambienta i suoi romanzi polizieschi. Lo scalpellino è il terzo libro della serie di grande successo (vedi in questo stesso blog Il predicatore e La principessa di ghiaccio) che ha portato l'autrice a porsi subito dietro Stig Larsson e la sua trilogia Millennium nella graduatoria degli scrittori svedesi più letti nel mondo. Alcuni personaggi fissi (il poliziotto Patrick e sua moglie Erica, ma non solo) e altri invece introdotti appositamente seguendo le esigenze narrative.
Essendo ormai giunti al terzo romanzo si possono individuare dei temi ricorrenti. Due sembrano essere di maggior rilievo: a) le apparenze borghesi e perbeniste dietro la cui facciata si nasconde una realtà spesso spietata e feroce; b) l'esasperazione del credo religioso visto come un'ossessione deviante e pericolosa se portata verso una rigida interpretazione e osservanza. Per il resto Camilla ci presenta un ventaglio di umanità,  di abitudini e stili di vita tipicamente nordici che, al di là della trama poliziesca di fondo, costituiscono certamente gli aspetti più interessanti dei suoi romanzi. Sicuramente istruttivi anche se a volte alquanto "raccapriccianti" per noi mediterranei. Mi spiego con un piccolo esempio a proposito dei cibi e dei gusti alimentari. Il protagonista Patrick, poliziotto brillante e intelligente, suole fare colazione o uno spuntino ingurgitando una tazza di cioccolata calda, due o tre fette di pane, burro, formaggio da spalmare e crema di uova di merluzzo (!!!). Pensate che schifezza immangiabile e imbevibile deve essere un cocktail del genere con i sapori di cioccolata, formaggio e pesce mischiati insieme... Bleah, preferisco non pensarci...

Fjällbacka
Ma veniamo a Lo scalpellino. La narrazione porta avanti storie parallele, alcune in tempo presente, altre in tempo passato con l'uso di flash back che rimandano ad avvenimenti accaduti agli inizi del '900 e che in apparenza sembrano del tutto slegati con i fatti che accadono a Fjällbacka. Lo scalpellino del titolo lo ritroviamo nel filone "storico" che riporta i fatti avvenuti nel primo novecento. Tutto il resto della vicenda è contemporanea. Quindi il primo interesse per il lettore è cercare di intuire quali siano i legami tra le varie storie e i personaggi. Va detto che il titolo risulta abbastanza slegato dalla vicenda, in quanto il vero e proprio scalpellino (lavoratore della pietra nelle cave) finisce con l'avere una parte tutto sommato marginale fino a scomparire dalla storia, mentre assumono importanza e rilevanza superiore altri personaggi. Tutta questa fase che potremmo dire introduttiva e preparatoria occupa la quasi totalità del libro (circa 600 pagine). Ahimè, una parte piuttosto noiosa e sonnolenta in cui, a parte l'antefatto tragico da cui prende il via la vicenda, non succede quasi più nulla. E' il limite maggiore del libro, peraltro già riscontrabile in maniera pressoche identica nel precedente Il Predicatore. Troppi personaggi, troppi intrecci che spesso finioscono con l'ingarbugliare la narrazione invece di arricchirla. Ad un certo punto, quando prende quasi forma la voglia di abbandonare la lettura del libro, la situazione subisce un'improvvisa accelerazione, i colpi di scena si succedono fin troppo e finiscono con l'accavallarsi quasi spasmodicamente. Dalle stalle alle stelle, tutto nelle ultime 100-120 pagine. Succede di tutto, molti nodi vengono al pettine, molti dubbi vengono sciolti e rivelati. Peccato questa discontinuità così accentuata ed eccessiva. Una maggior omogeneità narrativa con una distribuzione più avveduta dei fatti più importanti avrebbe, nel complesso, certamente giovato al libro.

Come detto, il tema principale è la verità nascosta che si cela sotto la corteccia esteriore della rispettabile e perbenista società svedese. Poco o nulla è in realtà ciò che sembra in apparenza. Le indagini di Patrick sembrano essere ad un punto morto, proprio perchè l'apparenza esteriore dei personaggi e delle rispettive famiglie di appartenenza sembrano coriacee e inattaccabili. Un continuo scavare e indagare oltre tali apparenze riescono a portare qualche risultato. Ma non basta. Solo un caso fortuito e un'intuizione improvvisa riusciranno a far sì che Patrick possa trovare il bandolo della matassa per risolvere il caso della bambina annegata in acqua dolce e ritrovata cadavere in mare aperto al largo di Fjällbacka.

Camilla Läckberg
Anche in questo libro, come nel precedente Il Predicatore, troviamo personaggi che sguazzano nella loro religiosità apparentemente integerrima e tutta d'un pezzo. La Lackberg pennella questi personaggi come fossero ossessionati dalla religione e dalle regole di vita contenute nella Bibbia. Il che è in aperta controtendenza con l'immagine che abbiamo noi della società svedese, libera e libertina. Evidentemente si tratta di luoghi comuni e stereotipi al pari della pizza e del mandolino italici. Altro mito da sfatare sembrerebbe essere l'impostazione educativa nei confronti dei figli. Nel nostro immaginario di latini mediterranei e mammoni i popoli nordici avrebbero idee e comportamenti opposti ai nostri. Quante volte abbiamo sentito dire che in Scandinavia i bambini sono lasciati per conto loro a gattonare per terra con i loro giochi, quasi che le mamme li abbandonassero con disinvoltura per occuparsi di altro. Che possono strillare quanto vogliono per reclamare attenzioni, ma che i genitori li ignorano perchè acquistino autonomia di comportamento e indipendenza caratteriale. Il modello scandinavo, o nordico in genere, era un punto di riferimento fisso quando più di vent'anni fa vennero al mondo le mie figlie e, come tutti i bravi genitori, anche io e mia moglie ci informammo e documentammo minuziosamente sui criteri educativi e sulle scuole di pensiero pedagogiche che andavano per la maggiore. Salvo poi fare di testa nostra... naturalmente. E per fortuna.
Ebbene la protagonista Erica è l'esatto contrario di quel modello stereotipato di mamma dura e inflessibile che, sorda ai pianti del bambino, segue imperterrita i principi educativi nordici. Balle. Erica ne fa addirittura una malattia depressiva dello star dietro ai pianti della piccola Maya, dei suoi ritmi di veglia e sonno, del ritmo delle pappe. La sua vita e quella coniugale con Patrick sono cadenzati dai ritmi imposti dalla neonata che detta legge a forza di pianti e di strilli. Alla faccia dell'imperturbabile inflessibilità dei genitori nordici...

Vabbè, siamo partiti da una trama poliziesca e siamo finiti a parlare di principi educativi dei figli. Cose che capitano discorrendo di libri.... Per fortuna.

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mercoledì 16 novembre 2011

"El gateo dea Morena, poareto!"

Ieri pomeriggio, verso l'imbrunire. All'orizzonte sul profilo frastagliato dei Colli Euganei splendevano i riflessi rossastri del sole al tramonto. Un'atmosfera magica. Colori accesissimi e intensi da rimpiangere di non avere con sè la macchina fotografica. Come se non bastasse, a rendere la prospettiva ancora più accattivante, una leggera bruma che sfumava i contorni dando al tutto un effetto flou naturale. Impalpabile, morbido e soffice. Uno di quegli spettacoli della natura che ti mettono in pace col mondo.

Procedo su una provinciale di campagna poco trafficata quando in mezzo alla strada scorgo una macchia scura. Quasi uno straccio buttato là. Magari, chissà, una sciarpa o dei guanti sfuggiti a qualcuno di passaggio. Mi avvicino sempre di più e mi accorgo che non si tratta di una vecchia sciarpa, ma di un gatto. Lo evito e mi fermo a lato. Mi avvicino, è un piccolo gattino a prima vista di pochi mesi. E' riverso sull'asfalto, appoggiato su un fianco. Le zampe di dietro immobili e inerti, mentre con quelle anteriori cerca di spostarsi da lì portandosi dietro un fardello che immagino dolorosissimo. Evidentemente deve essere stato travolto da una macchina o da un altro mezzo. Che non lo ha schiacciato e ucciso sul colpo, ma lo ha preso di striscio, magari cercando di evitarlo, probabilmente fratturandogli il bacino.
Deve essere successo da pochissimo. Nell'arco di questi pochi minuti il micino ha raggiunto il ciglio della strada, sull'erba verso il fosso. Proprio lì accanto c'è una casa di contadini, con il cortile, gli attrezzi agricoli, il trattore. Entro per vedere se c'è qualcuno. Magari il micino è loro, magari gli possono dare aiuto. Magari nelle vicinanze c'è un veterinario. In campagna è facile che i contadini abbiano frequenti rapporti con un veterinario. Vuoi che non ce ne sia uno nei paraggi?
Vado dentro, suono al campanello, aspetto che esca qualcuno. Dopo qualche istante si affaccia sull'uscio una signora piuttosto anziana, capelli bianchi. Faccia rubizza e incartapecorita di chi ha passato una vita al sole e all'aria aperta tutto il giorno. Spiego perchè sono lì, dico che c'è un gattino sulla strada che ha bisogno di cure. "Ah madona, el gateo de a me nevoda!" dice la vecchietta. Il gattino di mia nipote... Si fa indicare dov'è il micino, anche se il miagolio si sente da lontano nella semioscurità indicando la direzione da prendere. Nel frattempo sta calando una nebbia pesante e fredda. Densa e scura, da tagliare con il coltello. E' la prima nebbia della stagione e contrasta in maniera assurda con lo splendore del tramonto di pochi minuti prima. Lo stesso contrasto stridente del miagolio disperato del micino col silenzio assoluto e quasi pauroso della campagna. "El gateo dea Morena, poareto!", dice subito la nonna (il gattino di Morena, poverino). Morena dev'essere la nipotina.
Rientriamo in casa per prendere qualcosa per trasportare il gattino senza fargli troppo male tenendolo il più immobile possibile. Cerca e ricerca, la nonnina tira fuori un vassoio da caffè. Quelli belli di peltro che si usano per servire le tazzine di caffè o di the agli ospiti di riguardo. Lo useremo come una barella. Nel frattempo telefona a qualcuno e capisco che si tratta di un veterinario. Sarà quello che fa nascere i vitelli in stalla, andrà bene anche per un gattino. Torniamo fuori. Il silenzio è totale. Non si sente più il micino miagolare. Un silenzio che sa di morte. Ci avviciniamo al ciglio della strada. Lui è ancora lì, sull'erba, immerso nella nebbia. Ma non si muove più. Non si lamenta più. E' immobile del tutto adagiato su un fianco, ha finito di soffrire. Povero micino. Pochi mesi, neanche ha fatto in tempo a vedere cosa ci fosse oltre il fosso al di là della strada, che odori strani, che mondo misterioso..., che la sua vita era già finita. La vecchietta piange, non so se per il gattino oper come ci resterà male la sua nipotina Morena. Io saluto e me ne vado, non voglio mettermi a tirar su col naso anch'io....

Addio, piccolo gateo dea Morena, poareto.
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giovedì 10 novembre 2011

11/11/11

Scaramantici, superstiziosi, cabalistici, appassionati di numerologia o semplici curiosi, tutti coloro che vedono significati reconditi o simboli misteriosi da decifrare nei numeri, domani dovranno stare sul chi va là. La data di domani sarà di quelle incredibilmente particolari per le quali si potrà dire "io c'ero", per il semplice fatto che si tratta di una concatenazione di numeri tutti uguali: 11/11/11- E non basta. Per i più attenti e sofisticati osservatori assumerà un significato altrettanto particolare il momento della giornata coincidente con le ore 11, 11 minuti e 11 secondi dell'11/11/11. Una vera e propria orgia di numeri "1" e di "11".
E allora come la mettiamo? C'è o no un significato recondito dietro questa incredibile sfilza di "uni"?
Intanto diciamo che l'"uno" è un numero primo, anzi il primo dei numeri primi, ovvero divisibile solo per 1 (e dai...) e per se stesso. Il che in matematica è un dato tutt'altro che banale e oggettivamente rilevante. In simbologia e numerologia il tris di 11 viene abbinato al diavolo, chissà perchè. Ma secondo altre teorie l'11, venendo subito dopo il dieci, cifra tonda e positiva per eccellenza, indica anche rinascita. Come dire che dopo il 10, considerato una specie di punto di arrivo, il massimo dei voti, l'eccellenza per antonomasia, con l'11 si fa punto a capo e si ricomincia a salire, a contare, ad andare a avanti.
Mi ricordo quando andavo a scuola in prima elementare, la mia maestra, ma prima ancora mia mamma, con lo stesso metodo intuitivo, mi insegnavano a contare da 1 a 10. Dopodichè si passava all'11 anche con un tono di voce e una mimica diversi, segno proprio che questo benedetto 11 ha proprio qualcosa di particolare. Se sia anche misterioso o ancestrale o addirittura diabolico non saprei proprio, anzi... Ma, come diceva Benedetto Croce, "vale sempre la pena ricordare che tali congetture non esistono, ma è bene tenerne conto". Chiaro, no?

Per inciso, è in uscita anche un film. Genere horror, naturalmente. E la data della prima ovviamente è 11/11/11.....!!!

lunedì 7 novembre 2011

Follie da collezionisti dementi

Venduto all'asta un molare cariato di John Lennon. Cifra sborsata dal collezionista per l'aggiudicazione: 23.000 euro.

Il molare di John Lennon venduto per 23.000 €
Eh sì, l'augusto molare di John Lennon, per giunta cariato, è stato battuto all'asta in Inghilterra per 20.000 sterline (23.000 euro circa): l'acquirente è curiosamente un seguace canadese, tale Michael Zuk che di mestiere fa proprio il dentista. L'autenticità non è stata comprovata dal test del Dna, il molare era fin troppo fragile e si sarebbe rotto, ma ci si deve fidare di Dorothy Jarrett, arzilla novantenne che faceva la cameriera a casa Lennon negli anni'60. (Corriere della Sera, 7/11/2011)



Ehm..., io avrei dei calzetti con un buco proprio in corrispondenza di entrambi gli alluci. Sarei disponibile a venderli con dichiarazione firmata che comprova la mia proprietà. Posso prima lavarli, naturalmente. Se poi invece il collezionista li volesse in versione originale profumata (parfum de pieds) posso anche accontentarlo. N.B.: misura 48.
Ci mettiamo d'accordo sul prezzo naturalmente... Con piacere reciproco, mi auguro.

giovedì 3 novembre 2011

Film visti. La Luisona non perdona (ma non fa ridere)

Bar Sport

Regia: Massimo Martelli
Con: Claudio Bisio, Giuseppe Battiston, Angela Finocchiaro, Antonio Catania, Antonio Cornacchione, Lunetta Savino, Teo Teocoli


Voto: 1 su 5



Vita da bar negli anni '70. Un'altra epoca, un'altra storia. Un'altra Italia, tremendamente diversa da quella di oggi. Quasi naif da far tenerezza. Slot machines? No, scopa e tressette e per i più tecnologici il flipper. Spritz e long drink? No, Crodino e lambrusco. Sky tv e pay per view? No, Rai in bianco e nero. E sullo sfondo il ciclismo epico e cavalleresco o le trasferte per vedere la propria squadra del cuore dal sapore di pane e frittata. Roba d'altri tempi, quando ancora al bar c'erano i vecchi tuttologi che raccontavano e pontificavano intorno al tavolino della briscola.
E' la fauna da bar indimenticabile di quando eravamo ragazzi... Per quelli della mia età, naturalmente.

Insomma in questo quasi romantico quadretto storico-sociale da leccarsi i baffi aggiungiamo un libro di successo, che è un cult consacrato (di Stefano Benni), come fonte letteraria di ispirazione e un cast con attori di prim'ordine. Il successo è assicurato?!? O no?
E invece no, sia pure con queste promesse appetitose, il film è una ciofeca incredibile. Una commedia brillante in cui non si ride neanche un po'. Come definirla? Deprimente? Patetica? Prevedibile? Scontata? Tutto questo e anche di più.
E quello che doveva essere il tormentone di tutto il film, il pezzo forte da far scompisciare dalle risate le folle di spettatori...? E' la Luisona, un incrocio tra un mega bignè e un monumento al diabete prossimo venturo. Un simulacro portafortuna dell'intero Bar Sport, con farcitura alla crema, ma vecchio di anni. Un cimelio del giorno dell'inaugurazione del bar ormai rancido, ma che fa ancora bella mostra di sè nella vetrinetta del bancone, accanto ai cannoli e alle brioches fresche di giornata. Nessuno oserebbe mai sognarsi di addentarla, la Luisona, ben sapendo a cosa andrebbe incontro. Ma per qualche motivo un cliente di passaggio la sceglie e se la mangia con gusto. Una bocca foderata d'amianto di sicuro. Dovrebbe essere la scena clou dell'intero film, l'apoteosi finale. Come la classica scena della signora cicciona e antipatica che scivola sulla buccia di banana nelle comiche dell'epopea del cinema muto. Invece allo spettatore quello sfigato del cliente fa solo pena e non suscita alcuna risata. Anzi, se potesse, vorrebbe addirittura avvisarlo per risparmiargli il castigo divino che lo attende entro qualche minuto. Cosa che puntualmente avviene in un bagno pubblico di un autogrill in autostrada. Ma il poveraccio non fa ridere, al massimo ispira compassione.

Ecco, il film è tutto così.  Personaggi, situazioni, racconti che letti sulle pagine del libro di Benni fanno ridere e divertono perchè interpretabili dalla fantasia del lettore, ma che trasferiti sullo schermo sono ingabbiate in clichè polverosi, visti e rivisti, patetici e tristi, nonostante i buoni attori chiamati ad intepretare la fauna del Bar Sport. Come dire che nonostante gli ingredienti di prima qualità, non sempre la torta Luisona riesce buona e appetitosa da leccarsi i baffi... Che sia colpa del pasticcere?

Un film da dimenticare. Al più presto.