martedì 26 ottobre 2010

L'eschimese

Capita a tutti, prima o poi, di pensare a Dio e alla sua esistenza. Chi più chi meno, salvo rare eccezioni, siamo tutti stati educati alla religione e alle sue istituzioni, perchè Dio e la Chiesa sono insiti nella nostra cultura (cristiana, italiana e occidentale). Naturalmente Dio e la Chiesa sono cose diverse e ben distinte, anche se nel sentire comune è difficile che la differenza venga colta in maniera chiara e netta. Che piaccia o no è così, anche se nella maggior parte dei casi l'approccio a Dio e alla Chiesa avviene più per abitudine o tradizione, piuttosto che per vera convinzione o vera fede. D'altronde cos'è la fede? Chi può dirsi realmente fedele o non fedele; credente o non credente? Credo che molto spesso queste etichette siano abbastanza di facciata o formali e molto raramente siano realmente sentite, ponderate, volute e quindi vere. Io per esempio, sono stato educato a credere a Dio e a frequentare la chiesa. Fino a quando non ho cominciato a ragionare con la mia testa e a pormi delle domande. I classici dubbi della crescita e della maturazione, sia fisica che mentale. Ma penso che si tratti di un percorso non solo mio, bensì di molti se non di tutti. Poi ognuno con la sua testa potrà confermare o rafforzare gli insegnamenti ricevuti oppure discostarsene per scelta. Si tratta di una crescita individuale opportuna e necessaria che deve fare i conti anche con le esperienze maturate. Frequentare o non frequentare la chiesa fa evidentemente la differenza, perchè spesso non si sa di cosa si parla in realtà e non si conosce nulla o quasi di cosa significhi vivere dentro l'istituzione ecclesiale (banalmente: la parrocchia), sia dall'interno, come religioso che dall'esterno, come laico.

Ciò detto, torno al punto di partenza. Capita di fermarsi a riflettere su Dio e sulla sua esistenza. Esiste o no un dio? E in che modo si manifesta? Belle domande. Ma senza risposta, se non quelle che possono venire dalla riflessione soggettiva e personale.
Leggete questa storiellina. L'ho sentita in un film (non ricordo più quale), pronunciata da un personaggio di contorno, ma che mi è rimasta impressa.

L'eschimese.
Dio, Gesù, Allah, Maometto o Buddha non esistono. Ne sono sicuro. Ogni volta che ho avuto bisogno di loro li ho invocati con fede, ma nessuno si mai fatto vivo. Sono cristiano e sono stato educato a credere in Dio e Gesù, ma in realtà non esistono. E lo posso dimostrare. Tempo fa mi sono trovato nell'estremo nord dell'Alaska. Il mezzo di trasporto che utilizzavo è andato in panne e si è fermato. Ero bloccato a 40 sotto zero, in mezzo al ghiaccio e nella tormenta, a decine e decine di km dalla città più vicina. Non sapevo che fare, ero spacciato. E allora ho invocato Dio che mi aiutasse e mi salvasse. L'ho pregato di far ripartire il motore, di far cessare la tormenta, di non farmi morire congelato. E invece niente. Non si è fatto vivo. Mi ha lasciato lì, abbandonato nel ghiaccio. Si è dimenticato di me ed ha ignorato le mie preghiere.
Come posso raccontarlo adesso, vivo e vegeto? E' semplice. Al terzo giorno che stavo lì e ormai ero semi congelato e rassegnato a morire, è passato da quelle parti un eschimese con la sua slitta trainata dai cani. Mi ha visto e mi ha salvato portandomi al caldo e dandomi da bere e mangiare. Se sono vivo lo devo a lui, all'eschimese, mica a Dio. Lui neanche s'è fatto vedere.
.

domenica 24 ottobre 2010

Film visti. In nome del dio denaro

WALL STREET - "Il denaro non dorme mai"
Regia di Oliver Stone, con Shia LaBeouf, Michael Douglas.

Voto: 1 su 5

Questo sequel di Wall Street dello stesso Stone (l'originale risale addirittura al 1987, con Oscar a Michael Douglas) vorrebbe tornare ad essere cinico e spregiudicato come il primo, vorrebbe mostrarsi ancora una volta come film di denuncia del marciume che regna nel mondo finanziario che conta davvero, vorrebbe dare dignità umana e accreditare di sensibilità paterna anche le iene di Wall street. Ma in realtà è solo una ciofeca. Perchè fare un film così? Per sfruttare il successo di un precedente film vecchio di svariati anni poichè il marcio sta sempre lì? Per cavalcare il malcontento dell'opinione pubblica in questi anni di crisi? Per dare addosso ai banchieri felloni e agli speculatori che hanno messo in ginocchio il mondo intero? Per far sapere agli spettatori di non fidarsi di chi promette soldi facili senza alcuna responsabilità personale? Qualunque sia la motivazione, il risultato è scadente. Mi dispiace per Oliver Stone, ma questo film è una vera delusione. Irritante prima di tutto per il linguaggio criptico e iniziatico infarcito di tecnicismi incomprensibili a chi non abbia una cultura o una formazione di carattere finanziario. Lo spettatore medio, quale io mi ritengo, è impegnato per tutto il film a inseguire i significati di espressioni gergali, di acronimi incomprensibili, di definizioni oscure da Piccolo Bignami del perfetto finanziere. Ma irritante anche per l'inconcludenza della vicenda dove tutto è prevedibile, dove ci sono i buoni e i cattivi rigidamente inquadrati e con un finale in sfacciata controtendenza con tutta la ferocia morale ed etica mostrata fino a pochi minuti prima, con un voltafaccia da stendere un cavallo per la piatta banalità della soluzione conclusiva. Insomma, come ho già detto, una vera ciofeca. Michael Douglas ormai ha messo in bacheca l'Oscar del 1987 e recita solo se stesso, sempre con quel cinico sorrisetto sardonico stampato in faccia qualunque cosa succeda e qualunque ruolo interpreti, mentre il giovane LaBeouf farebbe meglio a tornare a dedicarsi a filmetti su giovani collegiali brufolosi alle prese con i primi tiramenti amorosi. Con tutta la stima per Oliver Stone, che pure in passato ha fatto grandi cose, questo Wall street parte seconda è da evitare assolutamente. Ci basta e avanza la realtà quotidiana per farci un'idea del livello morale che regna tra le iene di Wall street.

martedì 19 ottobre 2010

" 'A livella" non è uguale per tutti

'A livella secondo il grande Totò era la Morte, quella con la M maiuscola, perchè l'unica cosa in grado di azzerarci tutti e di renderci tutti uguali, nessuno escluso. Non ricchi, non potenti, non umili, non santi. Davanti alla morte gli uomini vengono piallati tutti indistintamente senza pietà.
Ebbene, se oggi Totò fosse vivo, non so se la penserebbe allo stesso modo. Il paradosso lo abbiamo visto reale e concreto ieri quando la polizia ha eseguito l'arresto del balordo che ha ucciso con un pugno alla stazione di Roma una donna di trentacinque anni, madre e moglie. Il colpevole dell'omicidio ha ricevuto il sostegno, la solidarietà e il conforto di circa duecento persone che si erano radunate sotto casa sua e che hanno riempito di improperi i poliziotti che hanno compiuto l'arresto. Perchè tutto questo? Perchè la morte non è uguale per tutti. C'è morte e morte...  La vittima del bullo romano aveva una colpa grave che la rende diversa dagli altri, anche da morta: era rumena. In forza di ciò la gente sotto casa dell'assassino si è sentita in diritto di contestare l'arresto e di invocare la libertà per il bullo. Che peraltro è stato colto in flagrante dalle telecamere della stazione Anagnina e dunque non vi è alcun dubbio sullo svolgimento dei fatti che hanno portato alla morte della giovane donna.
Il giovanotto, pregiudicato per reati minori, si è detto più volte pentito del suo gesto. Ma guardate la foto a lato: la sua faccia coperta in parte dal cappuccio non sembra la faccia di un pentito roso dal rimorso. Ride. Un ghigno beffardo, altro che contrizione e disperazione per aver spezzato una vita. Evidentemente il sostegno degli amici ha fatto il suo effetto, al di là delle dichiarazioni di circostanza probabilmente suggerite dal suo avvocato. E' diventato una specie di eroe. Ma è e rimane un assassino che ha sfogato la sua stupida aggressività su una donna, dopo averci litigato e averle sputato addosso. Uno schifoso vigliacco, altro che eroe.
Dal Corriere della Sera:
Quando sono arrivati i carabinieri , sotto casa di Alessio Burtone si era radunata una folla, che ne ha chiesto la liberazione, con amici che hanno urlato frasi come «Alessio uno di noi» o «Alessio libero». Tensione e applausi. Si aprono così le porte del carcere di Regina Coeli per Alessio Burtone, il giovane di 20 anni accusato di avere con un pugno provocato la morte di Maricica Hahaianu, infermiera romena deceduta venerdì scorso in un ospedale romano. Il gip Stefano Di Lorenzo lunedì ha firmato l'ordinanza notificata dai carabinieri a Burtone che lascia gli arresti domiciliari e viene condotto nel carcere di Regina Coeli. E’ accusato di omicidio preterintenzionale. L'ordinanza è motivata per pericolo di fuga e di inquinamento delle prove.


Questa vicenda fa il paio con l'altra di Milano, in cui un tassista è in fin di vita dopo essere stato massacrato di botte -un vero e proprio linciaggio ad opera di un branco- dagli amici della padrona di un cane che era finito sotto le ruote del suo taxi. il cocker era sfuggito al controllo della padrona, probabilmente perchè senza guinzaglio. Gli amici della ragazza hanno selvaggiamente picchiato il tassista. Perchè? Per quale meccanismo logico si picchia a morte l'autore di un atto di cui non ha nessuna responsabilità? E soprattutto perchè dopo gli amici degli indagati se la sono presa con i testimoni del fatto, minacciandoli e bruciando la loro automobile?  
Ciò che lega i due episodi, oltre alle considerazioni sulla diversa valutazione della morte di una persona straniera, è la violenza brutale, cieca e sproporzionata di cui sono rimasti vittime i due aggrediti. Perchè è la violenza, fisica e verbale, il paradigma di vita dei nostri tempi. E di esempi ne vediamo tutti i giorni. I modelli di vita e di comportamento che ci vengono offerti dai media, televisione in primis, sono comunque pervasi da un fondo di violenza inaudita. Non è forse violenza l'azzuffarsi dei politici in qualsiasi dibattito, anche parlamentare? Non è violenza il cosiddetto tifo dei cosiddetti sportivi da stadio di calcio? Non è violenza la dinamica che mette di fronte i concorrenti di certi show per teen agers di largo successo (grandi fratelli, tronisti, naufraghi, ecc....)?

domenica 17 ottobre 2010

Libri. Tre secondi per vivere o morire

TRE SECONDI
di Anders Roslund  e Börge Hellström

Questa notte ho fatto le tre per finire Tre secondi. Non è un gioco di parole, è la verità. Mi sono tenuto le ultime 150-200 pagine per il fine settimana sapendo di poter poi dormire un po' di più al mattino. Sì perchè questo libro è veramente avvincente e quando si incomincia a leggerlo le pagine e le ore scorrono senza accorgersene. Così è stato.

Roslund e Hellstrom, svedesi,  hanno scritto a quattro mani questo poliziesco che ha un gran ritmo narrativo e ottime descrizioni di personaggi, luoghi e situazioni. Nulla di approssimativo e "tirato via" come a volte accade nel genere poliziesco, è un signor romanzo a tutti gli effetti. La particolarità dei due autori, secondo quanto si legge sulla fascetta pubblicitaria, sta nel fatto che il primo è un giornalista e il secondo un ex delinquente. Non so di preciso che abbia fatto di male Hellstrom, ma evidentemente la minuziosa descrizione delle atmosfere carcerarie e delle dinamiche investigative sono frutto di esperienze personali. Buon per noi (e per lui) che abbia intrapreso la carriera letteraria abbandonando quella criminale.
Le vicende narrate si sviluppano nell'arco di una decina di giorni in tutto e abbracciano scenari che vanno dall'Europa (è ambientato in Svezia) agli Usa, passando da Polonia e Danimarca. Ma, attenzione, l'ambientazione scandinava non deve far pensare alle tipiche atmosfere nordiche che abbiamo imparato ad apprezzare sulla scia del successo editoriale di Stig Larssonn e del suo Millennium, in questo caso la fredda e gelata Svezia non ha un ruolo particolare come in molti romanzi del filone, bensì l'azione si sviluppa in estate e i protagonisti soffrono addirittura il caldo.
In Tre secondi abbiamo a che fare con poliziotti infiltrati, mafia dell'est europeo, politici felloni, burocrati statali infedeli e un commissario anzianotto e cicciottello con notevoli angosce esistenziali e un caratteraccio che non lo rende simpatico a nessuno. Però ha tenacia e fiuto investigativo come pochi altri...
Basta. Non dirò assolutamente nulla della trama, perchè tutta la vicenda va gustata pagina dopo pagina, senza anticipazioni. Buona lettura.

venerdì 15 ottobre 2010

Film visti. Rapinatori si nasce

Locandina The TownTHE TOWN
Regia di Ben Affleck, con Ben Affleck, Rebecca Hall, Jeremy Renner, Jon Hamm.
Voto: 2.5 su 5

Dalle parti di Boston, a Charlestown, l'attività più diffusa dagli autoctoni locali è la rapina. Lo dicono le statistiche e i rapporti di polizia e FBI. I ragazzi di strada vengono allevati fin da piccoli all'arte dell'irruzione in banca tra mafiosi irlandesi e armi da fuoco. Le loro famiglie sono per lo più allo sbando e si dibattono tra droga e meretricio. Un bell'ambientino, non c'è che dire. Purtroppo per Ben Affleck, di film "di strada" nel dispregio della legge e nel degrado sociale ci sono precedenti illustri che hanno fatto la storia del cinema. Scorsese e De Niro e i loro Goodfellas sono un punto di riferimento per chiunque si cimenti con questa tematica. Bel Affleck ci prova con impegno e il suo compitino lo porta a termine con dignità, sia pure non superando il livello della sufficienza. Troppe pause e troppe cadute di ritmo che finiscono con l'impantanare la storia dei ragazzi di strada di Charlestown e della loro ricerca di redenzione. Questi giovani rapinatori esibiscono un certo stile e seguono proprie regole per arrivare al massimo risultato con il minimo rischio e spargimento di sangue. Naturalmente non tutto fila liscio e l'imprevisto è dietro l'angolo... L'impossibilità di una reale alternativa alla vita marcia del quartiere è il tema di fondo del racconto narrato con amarezza e disincanto. Una situazione che pare cristallizzata e non modificabile che però viene messa in discussione e scardinata alle fondamenta per mezzo dell'amore per una donna e la nausea per il marciume malavitoso. Queste saranno le molle che scatteranno nel protagonista per trovare il coraggio di dire basta con quella vita. Ci riuscirà? Come? E a che prezzo? Vedere il film per avere le risposte, please.
Innanzitutto la prima sorpresa del film è vedere proprio Ben Affleck cimentarsi dietro la macchina da presa. Corre quasi l'obbligo di andare alla ricerca di agganci con il grande Clint Eastwood, perchè lo stile asciutto e pervaso di malinconia  del giovane Ben Affleck in qualche modo ricorda molto quello del Maestro. La seconda nota positiva viene dal cast, composto da simpatiche facce da schiaffi, tra cui spiccano il "fratello di rapine" di Ben, quel Jeremy Renner che abbiamo visto nei panni dello sminatore in The Hurt Locker di Kathryn Bigelow, l'agente FBI Jon Hamm (belloccio e apprezzato attore televisivo) e la fresca bellezza di Rebecca Hall, nel ruolo di "donna della redenzione" (vista anche nella comedy Vicky Cristina Barcelona di Woody Allen).
Insomma, un canovaccio di storia da sviscerare e approfondire, una regia abbastanza personale e promettente, bravi attori emergenti e con le facce giuste: gli ingredienti per un buon film di genere ci sono tutti. Basta non pretendere troppo.

lunedì 11 ottobre 2010

Applausi fuori luogo

Ancora una volta abbiamo visto trionfare la pessima abitudine, sempre più dilagante in Italia, di applaudire ai funerali di qualche morte eccellente. Proprio l'altro giorno abbiamo visto la folla applaudire la piccola Sarah Scazzi, domani vedremo sicuramente la stessa scena per i militari morti in Afghanistan. Ma che succede a noi italiani per travisare il senso di un gesto come l'applauso fino a rompere la sacralità e la ritualità di un funerale? Cosa diavolo c'è da applaudire davanti alla salma di chi non è più tra noi e -soprattutto- davanti al dolore dei familiari? L'applauso di per sè è un segno di giubilo, un compiacimento per delle doti altrui degne -appunto- di plauso e di riconoscimento. Può la morte di qualcuno suscitare tali sentimenti? Certamente no. E allora come può essere possibile utilizzare l'applauso per l'estremo addio ad una persona cara? La risposta, ahimè, ancora una volta va ricercata nella sempre più evidente e dilagante invadenza dei riti televisivi che dagli studi e dai teatri di posa vengono trapiantati tout court nella realtà quotidiana. Fateci caso, basta seguire con attenzione un qualunque programma tv. I ritmi sono cadenzati dagli applausi per qualunque cosa, per qualunque scansione del copione. Applausi, sempre applausi, tanti applausi. A raffica, a comando, raramente spontanei. Talmente tanti che sono finiti anche nei funerali, perchè comunque un sentimento di tristezza e di disperazione per eccellenza intimo e interiore deve essere esternato in maniera plateale e chiassosa. Altrimenti potrebbe sembrare ai più che sotto un dignitoso silenzio possa non esserci niente.

giovedì 7 ottobre 2010

Lo scempio di Sarah

La piccola Sarah è morta, uccisa dallo zio che l'ha strangolata mosso da un laido istinto sessuale. Non credo al raptus improvviso. Molto più facile ipotizzare che l'avesse presa di mira da tempo e che magari ci avesse provato già altre volte. Per approfittare di lei l'ha dovuta prima strangolare sorprendendola alle spalle, probabilmente perchè non avrebbe avuto coraggio di farlo guardandola in faccia. Un maledetto vigliacco che poi l'ha violentata quando era già cadavere. Poi, per quasi un mese e mezzo ha retto il gioco del parente affranto dalla scomparsa della nipotina quattordicenne, con tanto di lacrime in tv. Fior di sceneggiate fatte di pianti e appelli ai presunti rapitori. Ma in realtà il corpo della povera Sarah si stava già decomponendo in fondo ad una cisterna di campagna. Non è mancato neppure il tentativo di depistare maldestramente le indagini con il ritrovamento del cellulare, quasi a far pensare ad un atto orchestrato ad arte. Roba vista in qualche telefim poliziesco. Ma alla fine la terribile verità è venuta alla luce.
Della giovane Sarah è stato fatto scempio due volte. Una prima volta per opera del suo assassino, la seconda con lo sciacallaggio mediatico da parte dei cosiddetti esperti che già impazzano sulle varie tv. Tutti a pontificare, giudicare, sentenziare, interpretare, spiegare al vulgo le verità da rivelare a piene mani. Tutta una pletora di sciacalli sta già addentando la preda. Psicologi, criminolgi, giornalisti, psichiatri, intrattenitori da talk show, tutto il baraccone mediatico è già all'opera. Già quest'oggi pomeriggio si è sentito di tutto. C'è chi ha parlato di delitto maturato in una società arcaico-medievale, di un territorio dimenticato, di famiglia che si è dissolta, di famiglia moderna che vive di sopraffazione e di violenza al suo interno. Tutti con la verità in tasca. pronta all'uso, preconfezionata e adatta ad ogni circostanza. E più le sparano grosse i cosiddetti esperti, tanto più sembrano credibili le loro analisi. Le BarbareDurso e i BruniVespa di turno hanno già sfoderato tutte le loro facce di circostanza, contrite e accigliate, buone per tutte le stagioni. Dopo pochi minuti di zapping televisivo avevo già la nausea.
Il secondo scempio che dovrà subire Sarah passa dunque da chi ci dirà che il suo omicidio è frutto della abbietta società meridionale, della cultura arcaica, dell'arretratezza del meridione d'Italia e via blaterado. Come se queste cose non succedessero dappertutto, in tutta Italia, in tutto il mondo, Puglia o non Puglia. Perchè in tutto il mondo ad ogni latitudine c'è sempre un orco che vuole sfogare i propri istinti sessuali su una ragazzina, bella, dolce e seducente come solo i quattordici anni possono renderla agli occhi dell'orco in agguato. Ragazzine e ragazzini, non fa differenza, quei vigliacchi non fanno sconti a nessuno. Perchè di vigliacchi assassini è pieno il mondo e ogni tempo. Non c'entra niente la Puglia, la famiglia moderna che vive su equilibri instabili e precari, che scatena istanze violente e distruttive. Balle, solo balle. Buone per riempire i talk show e le pagine dei giornali. La verità è molto più tragicamente semplice ed è che l'uomo è un animale troppo spesso perverso che si fa guidare dagli istinti più bestiali collegati al sesso. Ovunque e da sempre.

lunedì 4 ottobre 2010

Film visti. Chi va al Sud piange due volte...

Benvenuti al Sud

Regia di Luca Miniero; con Claudio Bisio, Alessandro Siani, Angela Finocchiaro, Valentina Lodovini.
[Voto: 2,5 su 5]


"Il forestiero che viene al sud piange due volte: quando arriva e quando se ne va". L'affermazione viene pronunciata due volte nel film, all'inizio della vicenda che vede il direttore di ufficio postale della nebbiosa Lombardia trasferito per punizione in Campania e poi quando lo stesso se ne va, al termine del periodo di espiazione.  Il film fa di tutto per convincere lo spettatore della veridicità dell'assunto e infine, sia pure a modo suo, ci riesce in pieno. Il sud che emerge nel film è un luogo meraviglioso dove la vita scorre con semplicità e spensieratezza, tutti sono più o meno felici, ma comunque non sembrano avere problemi in grado di angustiare più di tanto le proprie vite. Insomma è un film comico, non un dramma o un film verità, quindi va bene così. Tanto più che è stato lo stesso protagonista Claudio Bisio ad ammettere che durante le riprese del film sembrava a tutta la troupe di vivere in un'isola felice, salvo poi tuffarsi nella cruda realtà soltanto pochi giorni dopo, quando a pochi km di distanza dalla location di Castellabbate, il sindaco di Pollica Angelo Vassallo è stato assassinato con 9 colpi di pistola nella notte mentre rientrava a casa.
Tornando al film, bisogna innanzitutto dire che si tratta del fedele remake del francese "Giù al nord" che ha avuto un enorme successo l'anno scorso. Il dipanarsi della vicenda è assolutamente identico come è giusto che sia un remake, fatta eccezione per l'ambientazione che in luogo della piovosa Bretagna è la soleggiata e ridente Campania. Piacevole il film transalpino, altrettanto piacevole l'italiano. Per i cugini francesi la regione dove espiare l'esilio punitivo è l'estremo nord con abitudini, tradizioni e dialetto incomprensibili per il forestiero; per noi invece la punizione si sconta in meridione tra i terroni napoletani (fieri di esserlo, almeno quanto i bretoni). Da qui una serie di esilaranti gags che strappano un sacco di risate facendo leva sui più triti luoghi comuni. Ma il gioco sta proprio in questo: giocare apertamente sui luoghi comuni senza alcun pregiudizio per nessuno. Il film risulta simpatico, semplice nella costruzione, divertente, leggero. In una parola lo definirei "domenicale" in quanto adattissimo per trascorrere un pomeriggio leggero quel che basta, pur senza essere banale (e volgare).
Bravo e gigione come al solito Bisio, circondato da altrettanto consumati caratteristi. Un cenno a parte merita Valentina Lodovini, brava e bella giovane attrice emergente, dagli splendidi occhi che sorridono. Una vera ventata di fragrante bellezza.
Unico neo (forse) del film, è il personaggio dell'impiegato postale "indigeno" interpretato da Alessandro Siani, che fa un po' troppo spudoratamente il verso a Massimo Troisi, arrivando a citarne un famoso sketch di oltre vent'anni fa (quello della lingua napoletana che con pochi monosillabi, uniti alla tipica mimica partenopea, riesce ad essere espressiva come e più di tanti discorsi). Ma preferisco pensare ad un omaggio al grande attore prematuramente scomparso.
.

venerdì 1 ottobre 2010

Bestemmie presidenziali

Vedere per credere:
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-cavaliere-e-la-bestemmia/2135516
http://www.youtube.com/watch?v=h02QOCNw_98


Non si tratta di fare i moralisti bacchettoni. Tra amici, per strada, al bar, in tv, ovunque si sente ben di peggio. La bestemmia e il turpiloquio sono entrati nel linguaggio comune a tutti i livelli e in tutti i ceti sociali. Non condivido, ma è così. Perchè la bestemmia è prima di tutto un'offesa dei valori di chi crede nella divinità, dunque una profonda mancanza di rispetto verso gli altri. Non credo che Dio si offenda se viene bestemmiato, è un tantino superiore a queste bassezze umane. Non è questo il punto. Il punto è che il bestemmiatore in questione è il Presidente del Consiglio, la seconda carica dello stato italiano. Un uomo pubblico che ha dei doveri e dei comportamenti da tenere nel rispetto del ruolo che ricopre. Il quale Presidente del Consiglio fra le sue mura domestiche può fare e dire ciò che vuole, ma nella sua veste istituzionale non può permettersi certi atteggiamenti umilianti per lo stato e i cittadini che rappresenta. Di qualunque partito o credenza essi siano.