mercoledì 31 marzo 2010

Il casellante

Non solo Montalbano. Camilleri, si sa, non è solo Montalbano, sebbene i suoi successi maggiori siano figli del commissario. Infatti la vicenda non segue il filone del sequel letterario e televisivo che abbiamo imparato ad amare in questi anni. Questo libro appartiene al Camilleri narratore della sua terra e dei suoi conterranei in altre situazioni e in altre ambientazioni che non siano delle vicende poliziesche. La lingua usata per scrivere questa storia è un siciliano molto "stretto" e originale (camilleriano doc); nulla o quasi è lasciato all'italiano, contrariamente a quanto avviene nei racconti di Montalbano che sconfinano, ammiccano, accennano, ma sono sostanzialmente in lingua. E il racconto acquista una musicalità che "acchiappa" da subito, non appena si riesce a decifrarla sufficientemente, cosa perlatro niente affatto difficile. Provate a chiudere gli occhi e a immaginare che a  leggere le pagine del libro sia un siciliano vero in carne e ossa e voce. Armonia pura.
Siamo dunque in Sicilia, tra l'amata Vigata e Castelvetrano, negli ultimi anni del fascismo. Lungo la linea ferroviaria che collega i paesi della costa fare il casellante è un privilegio non da poco: una casa, il pozzo, uno stipendio sicuro e un'esistenza dignitosa, quasi privilegiata. Ma la zona, alla vigilia dello sbarco alleato che spazzerà via le già moribonde camicie nere, si va animando di un via vai di militari e i fascisti, quasi presagendo la fine imminente (gli americani sono alle porte), sono in agitazione. A Nino, "trentino, beddro picciotto" (bel giovanotto sui trent'anni) è toccato un casello stretto tra la spiaggia e la linea ferrata. Si è sposato con Minica e aspettano, finalmente, un figlio.  E qui mi fermo nella sintesi della vicenda perchè succede qualcosa che sconvolge la vita dei due coniugi e che non è il caso di svelare. Basti sapere che Minica, moglie devota di Nino, finisce suo malgrado nell'occhio del ciclone che si abbatte su di loro e sul loro piccolo mondo fino al punto di restarne gravemente e indelebilmente turbata. La vita della coppia non tornerà più come prima.

Andrea Camilleri riesce a raccontarci questa storia struggente e tragica in maniera commovente e accorata, quasi sottovoce, riuscendo a fare breccia nel cuore del lettore con delicatezza, in punta di piedi. Si insinua nei nostri cuori e ci fa amare Nino e Minica. Camilleri ci trasmette le atmosfere e le emozioni di un mondo ormai perduto, fatto di cose semplici e sentimenti forti, cadenzato dai riti della quotidianità contadina. Perduto perchè sono trascorsi più di sessant'anni dall'epoca dei fatti narrati e nulla è più come allora. In Sicilia come nel resto d'Italia. Ovviamente, ma con una punta di evidente nostalgia per i sapori di allora. Tutto è cambiato, gli italiani sono cambiati e i casellanti come Nino probabilmente non esistono nemmeno più. Al suo posto un automatismo regolato da un computer. La vicenda assume quasi i connotati di una favola e avrebbe potuto benissimo cominciare così: C'erano una volta, in un paese lontano lontano, un casellante e sua moglie...

lunedì 29 marzo 2010

Film visti. Happy Family

Happy Family
Regia di Gabriele Salvatores con Fabio De Luigi, Fabrizio Bentivoglio, Margherita Buy, Valeria Bilello, Diego Abatantuono, Carla Signoris.
[voto: 3 su 5]
 
Forse non passerà alla storia come un capolavoro, forse non sarà il miglior Salvatores (certo, Mediterraneo è di un altro livello), ma certamente Happy Family è un film delizioso almeno quanto è  spiazzante per come è costruito. Divertente senza cadere nella grossolanità di certo cinema italiano, elegante, profondo e stimolante. Può bastare per sintetizzare in poche parole il livello di gradimento dell'ultimo film di Salvatores? Direi di sì.
Il meccanismo con cui è costruito il film non ha a mia memoria precedenti, infatti i protagonisti interagiscono con gli spettatori e si rivolgono a loro direttamente. Spiazzante se non si è preparati, ma direi molto interessante perchè il tutto è realizzato con brio e umorismo. Pensate nelle mani sbagliate quanto palloso potrebbe essere un attore-protagonista che dialoga con lo spettatore e con l'autore su come scrivere la sceneggiatura.... A questo si aggiunga che l'autore stesso (l'io narrante del film, alias Fabio De Luigi) si unisce ai personaggi e diventa personaggio egli stesso. Mai visto niente di simile? Io no.
Una citazione e una curiosità che possono contribuire a gustare il film.
La prima: "Preferisco leggere o guardare un film che vivere...nella vita vera non c'è una trama! (Groucho Marx)". Questo aforisma lo potete leggere al volo -se siete svelti- in una delle scene finali del film e rende parecchio il senso del film.
La seconda: sempre in una delle ultime scene, in una minuziosa carrellata sugli oggetti in casa di Ezio/De Luigi (chi sa di cinema parlerebbe forse di piano sequenza), si capiscono tanti perchè e percome della storia narrata. Ebbene lo stesso meccanismo di svelamento dei particolari lo si trova uguale identico in "I soliti sospetti", splendido film di Brian Singer del 1995, nell'epilogo finale allorquando il protagonista Kaiser Souza "vuota il sacco" nell'ufficio del detective che svolge le indagini. Geniale e rivelatore di tutto il mistero in Singer; curioso e particolare in Salvatores, ma comunque simpatico e piacevole sebbene non originale.
Bravi tutti gli attori. Bentivoglio e Abatantuono su tutti. chè da soli valgono il prezzo del biglietto.

mercoledì 24 marzo 2010

Forsizia mon amour

Che bella la forsizia, che gioia la forsizia, che allegria la forsizia. Quei piccoli fiorellini gialli attaccati al loro ramo come per miracolo sono i primi a sbocciare all'arrivo della primavera. Impazienti di annusare l'aria e di dare un'occhiata fuori. Sbocciano normalmente già nei primi giorni di marzo, ma quest'anno hanno fatto capolino adesso che siamo già oltre l'equinozio di marzo. Colpa di questo inverno, lungo e freddo, che ha ritardato la fioritura.
Nel giardino sotto casa, quando al mattino prestissimo porto Jack a fare due passi e i suoi bisogni, si colgono i segni delle stagioni. La ritualità e ripetitività dei gesti e delle azioni aiuta sotto questo aspetto. Giorno dopo giorno ci si accorge dei cambiamenti, a cominciare dal progressivo anticipo del sorgere del sole. Fino a poche settimane fa era ancora buio quando, imbacuccato con sciarpa-guanti-berretto, mettevo temerariamente il naso fuori di casa. Adesso invece la luce è già bella e forte e mette allegria. Qualcuno si ricorderà di un film di una ventina di anni fa (Smoke il titolo, se non sbaglio), il cui protagonista aveva preso l'abitudine di fotografare una volta al giorno la stessa piazza con la stessa inquadratura. Dopo mesi e anni e centinaia di scatti ne veniva fuori una specie di diario visivo nelle cui immagini si potevano leggere lo scorrere del tempo e i cambiamenti ambientali. Non solo, ma anche l'invecchiare delle persone che capitavano nell'inquadratura della foto.E' un po' quello che succede a me e a Jack quando ci facciamo la passeggiatina del mattino presto. Ieri abbiamo dato il benvenuto alla forsizia: io fermandomi ad ammirare la sua gialla semplicità, lui alzando la zampa e facendo pipì.
Già questa mattina si cominciavano a vedere i primi fiori dei ciliegi e poi sarà la volta di altri alberi e altri fiori. E' la forza inarrestabile della natura che si rinnova. Peccato che poi accendo la radio, leggo i giornali, vado al lavoro e precipito nel grigiore della quotidianità che ci abbruttisce tutti. Tanto per cambiare e ributtarsi nel solito fango fino al collo, la notizia del giorno è Berlusconi che interviene telefonicamente in diretta tv e attacca per la millequattrocentodiciottesima volta i magistrati.... che nausea, che squallore.
Forsizia, mon amour, salvami tu.

Duemila anni dopo...

Notizia 1
Regione del Punjab, anno 10 d.C. Un uomo è stato bruciato vivo da un gruppo di musulmani per essersi rifiutato di convertirsi all'Islam. Arshad Masih era il suo nome, aveva 38 anni ed era un cristiano.

Sua moglie, Martha Bibi, ha inoltre detto di essere stata stuprata da alcune guardie della guarnigione dove era andata per denunciare il caso. La violenza è avvenuta davanti ai tre figli della coppia che hanno un'età fra 7 e 12 anni. La donna lavorava come serva presso una ricca famiglia musulmana. Negli ultimi tempi erano però emersi dissapori a causa della loro fede cristiana e di un sospetto furto avvenuto nella casa. Masih non voleva convertirsi e abbracciare la religione musulmana.


Notizia 2
Punjab, Pakistan. Marzo 2010. Un nuovo terribile caso di odio religioso. Un uomo è stato bruciato vivo da un gruppo di estremisti musulmani per essersi rifiutato di convertirsi all'Islam. Lo riferisce il Pakistan Christian Post, giornale online affiliato a un partito cristiano locale. Arshad Masih, 38 anni aveva subito ustioni sull'80% del corpo e, secondo i medici dell'ospedale Sacra Famiglia dove era ricoverato, aveva poche probabilità di sopravvivere. Sua moglie, Martha Bibi, aveva inoltre detto di essere stata stuprata da alcuni poliziotti della caserma dove era andata per denunciare il caso. La violenza è avvenuta davanti ai tre figli della coppia che hanno un'età fra 7 e 12 anni. La donna lavorava come domestica insieme al marito dal 2005 presso una benestante famiglia musulmana. Negli ultimi tempi erano però emersi dissapori a causa della loro fede cristiana e di un sospetto furto avvenuto nella casa. Masih aveva ricevuto pressioni da parte del suo datore di lavoro per abbracciare la religione musulmana, ma lui si sarebbe rifiutato, secondo quanto riportato da AsiaNews, il sito internet del Pime (Pontificio Istituto Missioni Esteri) che per primo ha dato notizia della brutale aggressione. Negli ultimi tempi si sono ripetuti gli atti di violenza contro la minoranza cristiana pakistana che rappresenta l'1,6% della popolazione. Le organizzazioni cristiane locali si sono mobilitate lunedì chiedendo al governo della provincia del Punjab di punire i responsabili dell'omicidio e avviare un'inchiesta sulla violenza sessuale ad opera dei poliziotti.

Duemila anni di storia e di civiltà non bastano per estirpare il seme della barbarie nell'animo umano. In nome di Dio si continua sempre e comunque a uccidere.

Nota. Naturalmente la prima notizia è inventata. Ma la seconda purtroppo è cronaca di oggi. Il succo è che in nome di Dio (qualunque esso sia) si continua comunque a uccidere.

venerdì 12 marzo 2010

Film visti. The Hurt Locker

The Hurt Locker
Regia di Kathryn Bigelow, con Jeremy Renner, Ralph Fiennes, Guy Pearce, David Morse. 

Sceneggiatura: Mark Boal

[voto: 3 su 5]

Strana la storia di questo film. Viene presentato con grande successo di critica alla Mostra del cinema di Venezia nel 2008, anno della sua uscita in anteprima mondiale; passa nelle sale abbastanza inosservato e poi sembra svanire nel dimenticatoio. Invece viene ripescato per la nomination all'Oscar che alla fine si aggiudica trionfalmente battendo nientemeno che il favoloso Avatar. Ormai conoscono tutti anche la storia della lotta in famiglia tra la regista Kathryn Bigelow e l'ex marito James Cameron autore del favorito film super fantascientifico. Dal quasi oblio al red carpet: questa è Hollywood.
I più attenti avranno notato che nel titolo, oltre a regista e interpreti, ho inserito anche lo sceneggiatore. Il motivo è che è lo stesso dell'ottimo Nella valle di Elah (di Paul Haggis), di un paio di anni fa. Anche in quel caso la tematica di fondo era la guerra e la sua drammatica ricaduta in termini di costi umani, spesso non manifesti, spesso non contabilizzati dalle statistiche, ma non per questo meno tragici. "La guerra è una droga" è il sunto di Hurt Locker. E' una droga che spinge a rischiare la vita in ogni istante e a convivere con la morte con indifferenza. E drogato di guerra è il protagonista della vicenda, un sergente artificiere dei marines impegnato in Iraq. Uno sporco mestiere (tra i più rischiosi tra le varie specialità militari), in una sporca guerra in cui gli Usa sono invischiati fino al collo dopo averla di fatto iniziata sicuramente sottovalutandone il livello di coinvolgimento. Un conto alla rovescia con la morte, tant'è vero che il film è scandito dal ripetersi dei giorni che mancano all'avvicendamento delle truppe sul teatro di guerra. Meno 365 giorni, meno 364.... e così via fino al ritorno a casa dove c'è una moglie e un figlio ad aspettare. Ma è un ritorno in crisi di astinenza, con l'incapacità di parlare di altro che non siano bombe, inneschi, esplosioni. Emblematico lo sguardo perso nel nulla di fronte agli scaffali di un supermercato nell'incertezza di quale marca di cereali comprare. Perchè il sergente artificiere non sa nulla di come vivono sua moglie e suo figlio, non ne conosce più il sorriso, la voce, gli sguardi, i gusti alimentari. Il pensiero è sempre rivolto lì in prima linea... in attesa di ritornarci. Non rimane che l'aridità con cui finisce per gestire i rapporti umani, perchè un candidato alla morte non può permettersi altro. O non gli interessa.
Un atto di accusa indirizzato su diversi fronti (la guerra, la politica americana della belligeranza costante, l'establishement amricano, l'opinione pubblica manipolata e sostanzialmente succube...) portato sullo schermo con un registro che assomiglia ad un interminabile reportage da telegiornale che racconta di missioni che si susseguono una dopo l'altra, con commilitoni che cadono, muoiono, si avvicendano in una tragica catena di montaggio. La crudezza del film sembra quasi rifarsi ad un reality show in cui le telecamere seguono in presa diretta i protagonisti. Ma non si tratta di grandi fratelli o di isole di famosi, si tratta di guerra vera e di morte altrettanto vera. Questa asciuttezza nell'esposizione è il pregio, ma forse anche il limite maggiore del film. Nella valle di Elah, sceneggiato dallo stesso Mark Boal, il livello di coinvolgimento dello spettatore era decisamente maggiore e carico di pathos. In comune il senso di desolazione, là di un padre che va alla ricerca di un figlio reduce dall'Iraq travolto dai suoi fantasmi e morto al rientro in patria, qui di un soldato che fa della guerra la sua droga quotidiana. Ma pur sempre guerra, sporca e maledetta.

giovedì 11 marzo 2010

Il sole di marzo

Cosa c'è di più bello del sole di marzo?  Sebbene l'aria oggi sia ancora fredda dopo la terribile giornataccia di ieri con neve e vento polare, la luce che pervade tutto prende il sopravvento e trasmette una sensazione fantastica di benessere. E' la rivincita del sole. Bello, luminoso, caldo, frizzante, allegro, gioioso, inebriante. Nell'ora d'aria quotidiana, ...ooops, nella pausa pranzo invece di imbucarmi nel solito bar a ruminare la razione quotidiana di cibo predigerito per alienati, mi sono scelto una panchina al sole e mi sono fumato un buon toscano. Con calma, godendomi il momento, minuto per minuto. Per riconciliarsi con sè stessi. Come diceva il grande Eduardo, ...'a da passa' a nuttata.

mercoledì 10 marzo 2010

Una vita stracciata dai sospetti

Si può scegliere di suicidarsi a causa dei sospetti su un omicidio? Si può, eccome se si può. E' successo ieri. Si tratta di Pietrino Vanacore, l'ex portiere di via Poma in quel di Roma (quello del delitto di Simonetta Cesaroni, 7 agosto 1990). Come per quasi tutti i suicidi c'è il biglietto di addio e di spiegazioni del gesto; in questo caso di biglietti ce ne sarebbero più d'uno, tutti con lo stesso contenuto: «20 anni di martirio senza colpa e di sofferenza portano al suicidio». Dopo aver bevuto mezza bottiglia di detersivo per essere sicuro di non sbagliare, Pietrino si è legato una corda ai piedi e si è lasciato andare in mare. Una fine lucidamente progettata e portata a termine in modo disperato, perchè si sapesse che si trattava di sospetti ingiusti. Dal 1990 ad oggi sono passati 20 anni. Pietrino il portiere era stato inizialmente indagato per l'omicidio. Dopo di lui anche il figlio era finito nell'inchiesta. Poi è stata la volta dell'ex fidanzato della vittima. Indagini aperte, apparentemente in stallo, chiuse e poi riaperte a distanza di anni o decenni. Sì certo, formalmente le indagini non cessano mai, ma in pratica tra un indagato e l'altro sono passati 20 anni, non 20 mesi. Un fulgido esempio di indagini ondivaghe e intermittenti che procedono a spizzichi e bocconi. Oggi si segue una pista e indago Tizio; domani ne seguo un'altra e si indaga Caio. Ma no, la pista giusta è un'altra ancora! ...e vai con l'indagato Sempronio... C'è da chiedersi chi possa essere il prossimo ad essere incriminato. Infatti non è finita, perchè ancora oggi, nel 2010, il processo è in corso. Una storia orrenda per come è cominciata, -il brutale omicidio di una giovane donna-, assurda e incredibile per come si è sviluppata con una girandola di indagati, orribile per le conseguenze che ancora si porta dietro. Denominatore comune: l'incertezza su tutto: sulle circostanze e la dinamica dell'omicidio prima di tutto. E soprattutto ancora nessuna certezza sull'autore, con buona pace della povera Simonetta uccisa un pomeriggio d'agosto di vent'anni fa.

Ma è possibile una cosa del genere? E' possibile portare all'esasperazione degli indagati fino al punto che scelgano di suicidarsi pur di farla finita e per gridare un'ultima volta la propria innocenza? Non a caso l'ultimo messaggio dell'ex portiere parla di martirio. Può un suicida mentire sulla propria innocenza prima di compiere l'ultimo gesto? Quanto deve avere sofferto quell'uomo e i suoi famigliari in questi 20 anni di indagini, di sospetti, di incriminazioni, di avvocati, di giudici, di articoli sui giornali? Si può arrivare a legarsi una corda ai piedi per farsi annegare continuando a urlare la propria estraneità? Ma soprattutto, quelle grida che protestavano innocenza sono state mai realmente ascoltate da qualcuno? O erano grida perse nel vento o tra le righe di qualche articolo di giornale letto distrattamente dalla parrucchiera? Qualcuno si chiederà adesso se questi 20 anni di sospetti e di indagini traballanti e ondivaghe fossero giuste e adeguate, mirate concretamente ad un obiettivo reale piuttosto che cercare vanamente un mostro da sbattere in prima pagina per tacitare quanti -tanti, troppi- aspettavano un esito della vicenda?

Si legge che quel pover'uomo di Pietrino Vanacore voleva comprarsi una casa sua. Un desiderio che hanno milioni di italiani. Ma non l'ha mai potuto fare perchè le spese per gli avvocati prosciugavano tutto quello che aveva e non restava altro. Una vita stracciata tra un'indagine e un interrogatorio, tra una copertina di rotocalco e un servizio del telegiornale. Forse ha sofferto di più l'indagato della vittima. Un paradosso? Forse. Ma il vero paradosso non è piuttosto il tipo di giustizia che abbiamo in Italia? Dopo finire vittima di un atto di violenza, esiste sventura peggiore dell'essere coinvolto da innocente in un'indagine portata avanti in questo modo per 20 anni? Significa farsi prendere la propria vita e vederla stracciare in mille pezzi senza poter fare nulla. Se non disperarsi e farla finita.

lunedì 8 marzo 2010

Film visti. Shutter Island

Shutter Island
regia di Martin Scorsese con Leonardo DiCaprio, Mark Ruffalo e Ben Kingsley.
[voto: 4 su 5]

Difficile parlare del film senza svelare nulla della trama che è avvincente e coinvolgente fino all'ultimo minuto della proiezione. Diciamo che l'ambiente è quello di un'isola-lager che ospita un ospedale psichiatrico-prigione. Un manicomio criminale riservato ai più pericolosi assassini affetti da tare mentali. Siamo nei primi anni '50, all'indomani della seconda guerra mondiale, dello sterminio degli ebrei per mano nazista, della bomba atomica di Hiroshima. L'America affronta da vincitrice il periodo post bellico, ma deve comunque fare i conti con i propri fantasmi e con i propri incubi. Proprio come il protagonista Di Caprio, un agente federale con alle spalle un passato da eroe di guerra e da liberatore del campo di sterminio di Dachau, in missione per indagare sulla misteriosa sparizione di una paziente, detenuta per l'omicidio dei tre figli. L'agente Di Caprio deve fare i conti con l'apparato dell'isola, guadie carcerarie e staff medico, che non si dimostrano molto collaborativi, bensì ansiosi di salvaguardare i segreti dell'isola.
Da qui in poi è un crescendo di emozioni e di colpi di scena, in cui lo spettatore deve sempre cercare di distinguere tra vero e falso, tra realtà e illusione, in un magistrale intreccio narrativo messo in scena da Martin Scorsese, qui alla sua quarta esperienza con Di Caprio. Il quale Di Caprio è sempre più bravo come attore, dimostrando una padronanza della scena e una maturità interpretativa come pochi altri. Ben supportato dal resto del cast, Mark Ruffalo nei panni del collega detective, Ben Kingsley e Max Von Sidow nelle vesti dei medici, ambigui fino all'inverosimile.
Tutto nel film è misurato e studiato per concorrere a costruire il clima di dubbio che domina la vicenda. Un crescendo drammatico che va di pari passo con l'approssimarsi di un uragano che sta per investire l'isola conferendo a tutta l'ambientazione un'atmosfera da incubo. Scorsese, da vecchio marpione del set, usa tutte le armi a disposizione per confezionare sapientemente il film, compresa la partecipazione straordinaria di Robert De Niro in una apparizione che dura non più di un minuto o due, truccato in modo da essere quasi irriconoscibile. Non manca la citazione di un maestro del cinema come Alfred Hitchcock con una scala a chiocciola che si inerpica in cima ad un faro nel momento topico del film. La difficoltà maggiore è stata mostrare lo stato d'animo del protagonista senza che questo aspetto venisse fagocitato dallo svolgersi della narrazione. Risultato pienamente centrato, a mio avviso. Perchè il film è molto equilibrato e bilanciato tra introspezione dei personaggi e azione poliziesca, senza scivolare nel noir più piatto.
In definitiva, un film da non mancare, uno dei migliori della stagione.

sabato 6 marzo 2010

Brunonia, la lettrice bugiarda

Avevo letto de La Lettrice Bugiarda come di una specie di fenomeno letterario scritto da Brunonia Barry con la particolarità che, dopo essere stato stampato a spese dell’autrice, aveva conosciuto onori e gloria grazie ad uno degli strumenti più collaudati che ci siano in grado di decretare il successo di un libro: il passaparola tra i lettori. Quando me lo sono trovato per le mani in libreria l'ho comprato al volo attratto soprattutto, lo confesso, dall'incredibile nome della scrittrice, quasi che una che si chiama Brunonia dovesse per forza essere una brava scrittrice. Ma poi l'ho tenuto in uno scaffale per parecchi mesi finchè qualcuno mi ha ripetuto di averlo letto con piacere. E rieccoci col passaparola. Tra l'altro mi attirava non poco il fatto che fosse scritto da una donna. Per le mie abitudini di lettore di libri è abbastanza infrequente, anzi rarissimo. Non so se sia un caso o una scelta inconscia, ma è un dato di fatto che gli autori che leggo siano praticamente quasi tutti uomini. Chissà se c'è un significato recondito oppure sia solo un dato statistico.
E di protagoniste femminili abbonda il libro. Infatti quasi tutti i personaggi principali sono donne e decisamente matriarcale è la famiglia di appartenenza della protagonista Towner, giovane donna rimasta traumatizzata dal suicidio della gemella che, ohibò, la madre aveva regalato alla zia impossibilitata ad avere figli. I maschietti della vicenda, come spesso accade in una storia prettamente e volutamente "al femminile", non ci fanno una bella figura e sono tutti piuttosto marginali o scialbi o addirittura odiosi. Tant'è.
Torbida storia,  confusa e anche troppo complicata, che mette a dura prova il lettore con un intreccio di situazioni in luoghi e tempi diversi. Towner, in seguito a eventi di cui il lettore viene edotto col contagocce, rimane a lungo in un ospedale psichiatrico e il racconto a posteriori fatto nel libro salta di palo in frasca col risultato di disorientare il povero lettore. Il tutto è condito da un alone di mistero e di magia a cominciare dalla scelta della cittadina americana dove si svolge la vicenda. Niente di meno che Salem. Un nome che riporta immediatamente alla memoria la caccia alle streghe e i roghi  che tra la fine del XV secolo e l'inizio del XVIII secolo nell'occidente cristiano ne bruciarono barbaramente migliaia in tutto il mondo, in nome di una religione distortamente sanguinaria, integralista e intollerante.
L'atmosfera di mistero è subito introdotta da Brunonia (ah, che nome!) con Towner che torna a Salem dove risiedeva la zia acquisita Eva, che è scomparsa e che viene ritrovata morta. Come è successo? Omicidio o suicidio? Tutto è raccontato in prima persona dalla giovane Towner, afflitta da una mente non propriamente lucida, al punto che nei primi capitoli traspare una certa confusione tra realtà, fantasia e allucinazioni. La lettrice bugiarda del titolo è la parte più inverosimile e fantasiosa di tutta la vicenda e fa riferimento alla capacità di predire il futuro e il destino attraverso l'interpretazione (lettura) dei ghirigori dei ricami del merletto il cui confezionamento in quel di Salem è una delle principali attività economiche, insieme al turismo un po' orrido e truculento sulle tracce dei roghi delle streghe giustiziate da quei pii cittadini.
Insomma un libro con un certo fascino, ma abbastanza pasticciato. Vale la pena leggerlo? Forse sì, se proprio non avete niente di meglio sottomano.

lunedì 1 marzo 2010

Film visti. Invictus

INVICTUS
Regia di Clint Eastwood, con Morgan Freeman, Matt Damon.

[Voto: 3 su 5]

Sono combattuto. Non so se valutare il film con l'occhio dell'appassionato di rugby o con quello dell'amante del cinema. Per non parlare del "debole" dichiarato per Clint-regista.
Andiamo con ordine. Il film tratta di un passaggio storico e cruciale della storia del Sudafrica all'indomani della fine dell'apartheid. I bianchi perdono le elezioni dopo una vita di dominio incontrastato e di violenze razziste. I neri salgono al potere e si temono le vendette di ritorsione nei confronti degli ex persecutori. Per fortuna di tutti a capo della nazione "arcobaleno" c'è Nelson Mandela che ha la capacità, la lungimiranza, l'intelligenza e la tenacia di portare avanti una politica, non di vendetta, ma di integrazione, unificazione e pacificazione di tutti i sudafricani. Un progetto grandioso e difficilissimo da attuare e realizzare che va a cozzare con le resistenze di tutti, neri e bianchi.. Ma Mandela è uno che ha sofferto molto e se all'epoca dei fatti -negli anni 90- è ancora vivo, dopo quasi trent'anni di prigionia (detenuto 46664...), è perchè la sua anima è invincibile, sostenuta dalla forza della consapevolezza di essere nel giusto (Invictus - invincibile- è il titolo di una poesia che Mandela leggeva in cella). Così parte in questa sua avventura disperata cercando qualsiasi appiglio che possa tornare utile alla sua causa. Non escluso lo sport e il rugby in particolare. Ora bisogna dire che questo sport è quasi una leggenda per i valori che porta con sè. Cito una frase significativa: il rugby è uno sport da selvaggi praticato da gentiluomini. Ossia in campo ci si può menare, si può combattere e affrontare a muso duro, ma comunque mantenendo il rispetto dell'avversario. Ama il tuo nemico. Questo è il messaggio che Mandela voleva lanciare ai sudafricani. E il rugby gli forniva l'occasione in concomitanza con la Coppa del Mondo del 1995 giustappunto ospitata dal Sudafrica. Protagonista la squadra nazionale denominata Springboks (dal nome di un'antilope africana) intorno alla quale costruire l'interesse e la passione comune di bianchi e neri sudafricani. Il rugby come strumento di pacificazione a posteriori, nonostante l'oppressione razzista. Il riferimento alle strette di mano alla fine di una partita senza risparmio di colpi, anche proibiti, è chiaro ed evidente.
Da qui, il dipanarsi del film. Un traghettamento verso un nuovo mondo, da costruire più che da scoprire. Clint Eastwood ci offre un film quasi documentaristico in quanto legato a vicende vere e documentate storicamente che non permettono eccessive invenzioni autoriali a livello di trama e sceneggiatura. I vari personaggi sono talmente veri e reali che è impossibile inventarsi percorsi narrativi che possano granchè esulare dalla storia che, ricordiamolo, risale appena a pochi anni fa, qundi è forse più cronaca che storia in senso stretto. Questo è forse il principale limite del film al quale se ne aggiunge un secondo legato al rugby, così come viene rappresentato sullo schermo. Dico subito che è una visione di questo sport molto naif, molto ingenua, che facilmente può scontentare chi il rugby lo conosce approfonditamente. Molte le imprecisioni o le approssimazioni a volte quasi ridicole. Per non parlare della base audio delle situazioni di gioco in cui i grugniti animaleschi dei giocatori di mischia abbondano in maniera imbarazzante... Certo che documentarsi un po' prima di montare il film, non sarebbe stata una cattiva idea.
Ciò detto, rimane la sensazione di un film a tratti commovente, ma altre volte abbastanza freddo e descrittivo, proprio in stile quasi documentaristico. Fredda e priva di colore la fotografia per nulla generosa con un Sudafrica che invece dal punto di vista naturalistico sarebbe esattamente l'opposto. Qui si intuisce una precisa scelta di regia che nulla concede al folklore e alla retorica naturalistica. I neri non sono presentati come simpaticoni dediti a danze variopinte, bensì come gente che ha sofferto e pagato con la vita e con la privazione della libertà il dominio razzista dei bianchi; l'ambiente non è quello lussureggiante del Kruger Park, ma le squallide, luride e sterminate township dove gli Springboks vengono mandati a fare proselitismo. Questo rigore estetico è uno dei meriti di Clint che avrebbe potuto darci dentro alla grande andando a toccare facili nervi scoperti facendo un film lacrimevole e retorico. Invece la narrazione è asciutta ed essenziale. Curiosa la colonna sonora inframmezzata dalla frequente citazione di alcune note di O' sole mio eseguite con una delicata trama jazzistica (Clint è un cultore di musica jazz). O ho preso un abbaglio io oppure mi rimane misterioso il legame del famoso brano italiano con il Sudafrica.
Due parole su una considerazione che mi è venuta spontanea durante la visione dle film. L'idea propugnata e realizzata da Mandela di una politica al servizio della nazione e dei cittadini è esemplare e mi ha fatto sognare un Mandela italiano che abbia la capacità di fare politica per l'Italia e per il popolo italiano piuttosto che per pochi eletti o per una casta dirigente mantenendo e salvaguardando i propri interessi e quelli di una ristretta élite di cortigiani. Ma anche che una volta arrivato al poter non infierisca sulla minoranza sconfitta mettendola nell'angolo e facendola fuori politicamente. Perchè soprattutto questo è il messaggio di Mandela. Ama il tuo nemico. Con i fatti, non con le parole e gli slogan...
Ma, si sa, i sogni sono desideri spesso irrealizzabili. Almeno in Italia e con questa attuale genìa di politici.