sabato 27 febbraio 2010

Faletti, o dell'inutilità di un libro

Io uccido, Niente di vero tranne gli occhi, Fuori da un evidente destino, Pochi inutili nascondigli... Grandi successi editoriali, centinaia di migliaia di copie vendute. Un fenomeno come pochi altri. Ma sarà vera gloria?
A parte il primo Io uccido, li ho letti tutti e ogni volta, giunto all'ultima pagina, mi chiedo perchè mi intestardisco e insisto quando so già dall'inizio che il libro non mi darà niente, salvo un po' di suspence. Nulla di più, un vuoto pneumatico. Lo scrivere di Giorgio Faletti è facile e immediato, scorre via veloce, sebbene alla fine non resti niente, spesso è gradevole se solo evitasse quella specie di pubblicità occulta nel citare marchi commerciali collegati ai personaggi (un esempio per intenderci: il tal protagonista indossa un paio di Nike o guida un Mercedes modello xy, non un paio di anonime scarpe sportive o un'auto qualsiasi... probabilmente perchè nella logica di Faletti la marca del prodotto disegna il personaggio). Ma continuo a leggerlo. Deve essere una forma di sadico autolesionismo. Vai a capire...

Io sono Dio non fa eccezione. La trama scorre come sempre su due piani paralleli, seguendo i punti di vista dei protagonisti con una specie di montaggio cinematografico fatto di sequenze rapide trasformate in capitoli. Da un lato l'assassino e dall'altro gli investigatori. O viceversa, a seconda che nella narrazione prendano il sopravvento i buoni o i cattivi. E questo vale anche per gli altri libri.
Lo spunto dell'intreccio poliziesco di Io sono Dio è interessante e intrigante ed è senz'altro il momento migliore del libro, anche se un lettore attento e un po' "sgamato" finisce per scoprirlo troppo presto facendo perdere interesse al finale. Il che non va affatto bene. Ovviamente non dirò nulla di più, anche perchè se leviamo questo, al libro rimane proprio ben poco.
Un consiglio. Non fate come me, questo libro è da leggere sotto l'ombrellone in altro periodo dell'anno, sempre che si prenda per buono il clichè che in spiaggia si debbano leggere preferibilmente cosine leggere leggere...

giovedì 25 febbraio 2010

Invictus. Il rugby per la pacificazione sociale

Domani 26 febbraio esce Invictus, il film di Clint Eastwood in cui sono narrate alcune delle vicende che portarono il Sudafrica dal regime dell'apartheid a quello del rinnovamento e della pace sociale bianchi-neri. Protagonista, ovviamente, Nelson Mandela interpretato da Morgan Freeman. Uno degli strumenti di questo processo di rinnovamento e di pacificazione sociale furono gli Springboks (la nazionale di rugby sudafricana) e la Coppa del Mondo del 1995 disputatasi proprio in SA.
Il titolo del film prende origine da una poesia che Nelson Mandela recitava in carcere per farsi forza e sopportare il durissimo regime di detenzione (27 anni!) a cui era sottoposto.
Il fatto che sia un film del vecchio Clint sarebbe da solo un valido motivo per andarlo a vedere (personalmente ho visto tutti i suoi film e sono uno meglio dell'altro), ma in questo caso si parla di rugby e dei suoi valori intrinseci come sport di contatto fisico, ma basato sul rispetto dell'avversario. L'interesse raddoppia per chi come me ama sia il rugby che il cinema. Pare che sia molto bello (non l'ho ancora letto) anche il libro da cui è tratto il film: "Ama il tuo nemico" di John Carlin. Dunque un motivo in più per suscitare interesse nel film, la cui ultima parte è interamente dedicata al percorso degli Springboks in Coppa del Mondo 1995 fino alla finale contro gli "dei" del rugby, gli All Blacks neozelandesi. Non dirò chi vinse quella edizione dei mondiali a beneficio di quanti non conoscono o non seguono il rugby.
Le anticipazioni della critica sul film dicono che le riprese con la steadycam mobile delle fasi di gioco sono particolarmente belle, realistiche e coinvolgenti. Da leccarsi i baffi.
Penso di andare a vederlo nel fine settimana e dunque ne riparleremo a breve.

lunedì 22 febbraio 2010

Film visti. Amabili resti

Amabili resti
Regia di Peter Jackson. Con Mark Wahlberg, Rachel Weisz, Susan Sarandon, Stanley Tucci, Saoirse Ronan.
[Voto: 1,5 su 5]
 
Melassa informe in salsa new age. Peter Jackson, quello della Trilogia dell'anello, abbandona mostri e nanerottoli eroici per dedicarsi a temi decisamente più complessi che però affronta comunque con gli strumenti della fantasia e della fervida immaginazione. Ne viene fuori un ibrido a metà strada tra il poliziesco sui serial killer e il film drammatico sui grandi temi della vita e della morte, di chi siamo e di dove andiamo. Purtroppo alla fine non è nè carne nè pesce e questo lo sotterra a livello di film palloso e insulso. Belle immagini, bei colori, buoni sentimenti a iosa in un'America di maniera molto middle-class-bianca con le sue casette linde e ordinate e i papà che passano il tempo a giocare con i figli. Tutto molto bello, molto giusto, molto edulcorato. Troppo. E anche tremendamente sdolcinato e soprattutto già visto. Bei personaggi tra i "buoni": mamma, papà, familiari tutti, amici e boy friends; laido e sordido il "cattivo" serial killer. E dove sta la novità o l'idea originale?
E che dire dell'idea di Paradiso e Inferno come meta finale del passaggio nell'aldilà slegati da una logica di fede e religione (in tutto il film non c'è il minimo accenno alla dimesione religiosa dei protagonisti)? Ma per quanto ancora ci verrà propinata 'sta  melassa caramellosa della filosofia new age come alternativa laica e buonista a Dio?
Da segnalare tra gli interpreti:
- Susan Sarandon, perfetta nel ruolo di suocera/nonna semi alcolizzata e fuori dagli schemi perbenisti
- Rachel Weisz, brava e bella come al solito nel ruolo di mamma-che-cade-e-risorge
- Stanley Tucci, bieco come pochi altri come serial killer/orco-cattivo
- Mark Wahlberg, del tutto fuori ruolo come papà straziato dal dolore (decisamente meglio in brutali ruoli d'azione)
- Saoirse Ronan, debuttante deliziosa e bravissima nel ruolo della ragazzina vittima dell'orco cattivo.
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P.S.: Jackson si auto-cita almeno un paio di volte, se non me ne sono sfuggite altre. In una scena all'inizio del film in una libreria del centro commerciale si vede una locandina che fa riferimento a Lo Hobbit (Tolkien...Compagnia dell'anello...); successivamente in una inquadratura fuggevole si vede un avventore di un negozio che legge in piedi un libro o una rivista: giurerei che fosse proprio lui, Jackson in persona con tanto di barba. Mi ricorda qualcosa... che abbia a che fare con il vecchio Alfred...?

mercoledì 17 febbraio 2010

Torna l'avvocato Guerrieri

Gianrico Carofiglio ci ripropone le avventure dell'avvocato Guido Guerrieri. L'ultimo capitolo (per ora) da poco uscito nelle librerie si intitola Le perfezioni provvisorie e giunge dopo Testimone inconsapevole, Ad occhi chiusi e Ragionevoli dubbi. Invece svincolati dal personaggio-Guerrieri: Il passato è terra straniera (da cui è stato tratto un bel film con Elio Germano); Nè qui nè altrove (Una notte a Bari). Tutti letti e tutti piaciuti. Personalmente sono un fans dichiarato di Carofiglio del quale apprezzo moltissimo lo stile di scrittura, asciutto ma non povero di descrizioni e coloriture, fluido ma non superficiale, appassionante ma non inquinato dal solito stile thriller di maniera. L'ambientazione dei suoi romanzi è Bari, che ormai ho imparato a conoscere ed apprezzare, quasi ci fossi stato di persona. Via Sparano, il lungomare, il teatro Petruzzelli, S. Nicola, le varie librerie, la zona di Bari vecchia con i suoi dedali di strade e le facce poco raccomandabili che si incontrano... e poi, ancora, certi locali così affabilmente descritti che verrebbe quasi voglia di andare a scovare, se esistessero davvero (chissà...). Devo dire che la lettura di Carofiglio ha contribuito in maniera rilevante a modificare l'idea preconcetta (ahimè) che avevo di Bari, che ai miei occhi incarnava il classico clichè sommariamente negativo di città levantina, a metà strada tra il suk mediorientale e la tipica stereotipata città del sud d'Italia. Invece l'immagine che ne esce è di una città moderna, pienamente al passo con i tempi (nel bene e nel male), effervescente sotto tutti gli aspetti, ricca di cultura come anche, purtroppo, di corruzione e di malavita. Insomma, Bari come specchio fedele dell'Italia, con i suoi pregi e i suoi difetti.
Ma il motivo per amare ed apprezzare Gianrico Carofiglio viene principalmente dai suoi personaggi, avvocato Guerrieri in testa. Sobrietà è la parola d'ordine. Ma non superficialità. Sobrietà nella raffigurazione e caratterizzazione sia del protagonista che delle figure di contorno. Carofiglio riesce a penetrare a fondo nei personaggi senza bisogno di colpi di scena eclatanti o situazioni torbide o sanguinolente. La vita e le situazioni che descrive sono realmente credibili e verosimili. Nulla a che fare con la realtà romanzata, spesso surreale e sopra le righe che ci viene spesso propinata. Trattandosi di un avvocato penalista si potrebbe parlare di fatti di gente non-perbene, rubando e storpiando l'espressione a Mauro Bolognini. Ma sono comunque eventi a dimensione umana, che servono da spunto e da pretesto per raccontare di persone e di personaggi mai banali, ma sfaccettati e sezionati per meglio comprendere ciò che sta loro intorno. Non manca un'incursione nelle vicende personali e sentimentali del personaggio-Guerrieri (avvocato con la passione della lettura e del pugilato), ma anche in questo caso gli accenni sono sempre funzionali alla narrazione e alla costruzione dei personaggi e delle vicende. In quanto avvocato penalista, Guerrieri viene a contatto con quelli che sono i temi ricorrenti della vita italiana contemporanea: la droga, la malavita, il razzismo strisciante, il malaffare, il sottobosco di truffatori di mezza tacca che vivono e si sollazzano tra sfarzo grossolano e macchine lussuose. Il che contribuisce in modo significativo a descrivere "da dentro" una bella fetta della nostra società contemporanea. Non dimentichiamoci che Carofiglio, oltre ad essere scrittore è stato magistrato (o forse lo è tuttora?) e dunque conosce perfettamente il mondo border line che descrive nei suoi romanzi.
Da consigliare a quanti amano leggere storie e vicende italiane, non banali e comunque interessanti e avvincenti. Ma soprattutto per apprezzare la non comune capacità di scrivere di Gianrico Carofiglio.

lunedì 15 febbraio 2010

Ostensione di S. Antonio. Fede o business?

Da oggi fino al 20 febbraio presso la Basilica del Santo qui a Padova si assisterà alla pubblica ostensione delle spoglie di S. Antonio. La città è in subbuglio, con la Protezione civile mobilitata in grande stile. Probabilmente parlo da uomo di poca fede, prevenuto e condizionato dai molti dubbi e dalle poche certezze, ma di fronte ad un evento come questo, che fa il paio con quella di Padre Pio, avvenuta credo l'anno scorso, la prima domanda che mi viene spontanea è "perchè"? Da quale esigenza o bisogno o necessità della Fede nasce la decisione di procedere a un'ostensione? Sia S.Antonio che Padre Pio mi pare godano ottima salute dal punto di vista del carisma e del seguito di fedeli, quindi la scelta di mostrare ciò che rimane dei loro corpi terreni non sembrerebbe mossa dalla volontà di far rifiorire tra i fedeli una devozione in declino. Ma allora, perchè? Come non pensare che una ragione  -senz'altro non la principale, ma di certo di grande peso-  possa essere la fortissima spinta economica che ne deriva? Le decine o centinaia di migliaia di fedeli e pellegrini provenienti da tutta Italia e dall'estero (si parla di almeno duecentomila persone nell'arco della settimana) porteranno un flusso di denaro enorme in termini di offerte, di acquisti di souvenir, di prebende, di ristorazioni, di soggiorni e pernottamenti. Sono malevolo e aridamente materialista? Mi pare che siano dati inoppugnabili. Ma dal punto di vista della fede, come la mettiamo? Di un santo, ovvero di una figura mistica per eccellenza, si venerano la vita esemplare, gli insegnamenti, le idee propugnate, la condotta morale e l'osservanza delle regole e dei comandamenti. Ma i resti ossei che c'entrano? Qual è il senso di questa ostensione (ma il termine che mi viene di primo acchito sarebbe "esibizione)? In che modo l'ostensione e dunque la venerazione delle ossa di un santo costituiscono un'espressione o un atto di fede?
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giovedì 11 febbraio 2010

Solo me ne vo' per la città...

Cosa vi ispira questo disegno a lato? Sensazioni di disagio? Di freddo, di pioggia, di buio? Di umido e di scarpe fradice? Sì, forse. Anche. In realtà l'immagine raffigura una delle mie passioni non dichiarate. Camminare la sera col buio nella nebbia o con la pioggia. Di giorno mi darebbe fastidio e lo evito in tutti i modi. La sera, no. Succedeva spesso che dopo cena mi infilassi il piumino più caldo, magari corroborato da un bel maglione, berretto "fracà", guanti e via. Adesso non più, almeno non più come una volta. Non ce la farei. Camminare a lungo mi affatica troppo. Ma ogni tanto ci provo ugualmente riducendo il raggio d'azione. Passeggiate senza meta, facendomi guidare dal caso. La situazione più bella e affascinante di tutte è la nebbia. Rende tutto approssimativo, vago, misterioso. Alla sera, per le strade di periferia, non si ode altro rumore se non quello dei propri passi e dei propri pensieri. Il freddo cerca di penetrare nelle ossa e cerca varchi ovunque.   Il viso è preso a morsi dal gelo umido della sera, ma tutto il resto è al riparo dei vari strati. E' una cosa ben strana quella sensazione di caldo circoscritto che mi avvolge e mi protegge da quello che c'è fuori. Un guscio avvolgente e accogliente. Il massimo è quando mi accendo un toscano. Le volute di fumo si mescolano al fiato che si condensa. Nuvoloni ovunque che al passaggio lasciano una scia non solo odorosa o che si confondono con la nebbia, quando c'è. Per questo uso i guanti di lana con le mezze dita: mi permettono di tenere il toscano senza doverli sfilare e farli congelare. La mia città è bella di sera. Il centro storico si raggiunge in 20 minuti a piedi con passo regolare, senza strafare. Un intreccio di stradine porticate con i ciotoli al posto dell'asfalto. Lontano dai luminosi e futili negozi grandi-firme. Lì c'è un sacco di gente che fa lo struscio serale.
Non lì bisogna indirizzarsi per gustare il buio e il silenzio della notte. Una delle mete preferite che inevitabilmente finisco col raggiungere è quella del vecchio ghetto ebraico, nel cuore della città. L'atmosfera sembra ferma nel tempo. La zona pedonale limita quasi a zero il traffico e sembra quasi di vivere in un'altra epoca. Le rare auto che passano rotolando sull'acciotolato fanno un rumore decisamente diverso, quasi più accettabile all'orecchio. Palazzetti ultracentenari appoggiati l'uno all'altro senza soluzione di continuità che sembrano sostenersi a vicenda. Finestre illuminate che lasciano intuire attività domestiche, luci, ombre cinesi, musica, i bagliori azzurrini delle tv accese. Il tutto reso impalpabile dalla nebbia o lavato dalla pioggia che pulisce tutto e tutto quasi rinnova a nuova immagine. E i pensieri vagano, si rincorrono, si perdono, ma poi riaffiorano. Spesso forti, altre volte sbiaditi. Dalla nebbia e dal tempo. Solo me ne vo' per la città...

Solo me ne vo per la città
passo tra la folla che non sa
che non vede il mio dolore
cercando te, sognando te, che più non ho.
Ogni viso guardo e non sei tu
ogni voce ascolto e non sei tu
Dove sei perduto amore?
Ti rivedrò, ti troverò, ti seguirò.
Io tento invano di dimenticar
il primo amore non si può scordar
è scritto un nome, un nome solo in fondo al cuor
ti ho conosciuto ed ora so che sei l'amor,
il vero amor, il grande amor.
Solo me ne vo per la città
passo tra la folla che non sa
che non vede il mio dolore
cercando te, sognando te, che più non ho.
E'scritto un nome, un nome solo in fondo al cuor
ti ho conosciuto ed ora so che sei l'amor,
il vero amor, il grande amor.
Solo me ne vo per la città
passo tra la folla che non sa
che non vede il mio dolore
cercando te, sognando te, che più non ho. [S.T.]
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martedì 9 febbraio 2010

Nuovo layout del blog


SORPRESA!

Cari amici, da oggi il blog cambia aspetto e assume questa nuova veste grafica, più colorata e più allegra. Chissà, forse inconsciamente è un auspicio di risveglio e di rinnovamento in sintonia con la primavera che prima o poi deve arrivare... realmente e metaforicamente.
Spero che vi piaccia.
-A.V.-

domenica 7 febbraio 2010

Daria Bignardi - Non vi lascerò orfani

Daria Bignardi a me piace, sia come donna che come giornalista. Sa proporsi in modo interessante con quel suo modo sobrio, ma non troppo, di parlare (semplice e diretto, ma non povero), di offrirsi al pubblico (elegante e mai caciarone), di vestire (il tacco giusto, la gonna giusta, la camicetta mai troppo sbottonata); soprattutto sa essere ficcante nelle sue interviste senza diventare invadente e (cosa rara nel giornalismo italiano) senza mai finire in ginocchio col potente di turno, stando alla larga da sviolinate mielose con il personaggio famoso (pensate allo zuccheroso Fabio Fazio...); riesce a sostenere con disinvoltura la scena e la conduzione dei suoi programmi, L'era glaciale (Rai) e prima ancora Le invasioni barbariche (La7). Entrambi tra i migliori talk show in circolazione, a mio modesto avviso. Riesco a perdonarle anche la conduzione delle prime due edizioni del Grande Fratello (era il 2000 se non sbaglio), perchè allora quel tipo di reality show poteva ancora dirsi interessante e con una certa valenza culturale e sociologica. Niente a che vedere con il baraccone falso e sciroccato di oggi. Insomma, avercene di dariebignardi in tv...
In tv, però. Perchè nella veste di scrittrice proprio non ci siamo. Sto leggendo il suo libro Non vi lascerò orfani, uscito di fresco l'anno scorso. Un'autobiografia di famiglia, se mi concedete il termine, essendo incentrato proprio sull'intero albero genealogico dei Bignardi, rami secondari compresi. Il pretesto è la morte della di lei mamma e l'inevitabile bilancio che si è portati a fare in questi frangenti dolorosi. Un riordino dei ricordi di una vita passata insieme che è come riaprire vecchi cassetti della memoria, frugarci dentro e trovare cose perdute e dimenticate. Bello il pretesto, interessante lo spunto, ma deludente il risultato. Questa specie di lessico famigliare è pesantuccio da digerire perchè da l'impressione di non andare molto oltre l'elencazione di nomi, di nonni, di zii, di parenti di ogni tipo, che però restano nomi senza diventare personaggi. E qualche aneddoto non contribuisce in modo significativo a risollevare la situazione. Non sono riuscito ad amare il racconto di Daria se non in maniera superficiale e descrittiva. Salvo soltanto le citazioni ricorrenti dei modi di dire di famiglia, le frasi abituali, riportate tra l'altro anche foneticamente con una traslitterazione dei suoni (esempio: bestia diventa besctia, con la "sc" di sciare). E' bene tener presente che la famiglia Bignardi è radicata tra Bologna e Ferrara e dunque l'accento è quello emiliano-romagnolo. Una specie di dizionario fraseologico che funziona come un vero e proprio fattore distintivo della famiglia. Non so se sia un'invenzione sua, di Daria, ma mi è piaciuta molto. Anche perchè è facile e immediato andare col pensiero dalle pagine del libro ai modi di dire della propria famiglia (quella del lettore) e applicare l'analogia. Una specie di marchio di fabbrica lessicale. Un pensiero molto tenero.
Ma basta a salvare il libro? So di andare controcorrente, perchè invece questa opera prima di Daria Bignardi è stata accolta e giudicata piuttosto bene, sia dalla critica che dal pubblico. Tuttavia trovo il libro troppo esile e anche confuso nel suo dipanarsi tra zii e nonni. Peccato, sarà per un'altra volta, cara Daria. Aspetto fiducioso.

giovedì 4 febbraio 2010

L'apologia della cocaina e l'ipocrisia

Questo signore nella fotografia a lato si chiama Morgan. Fa il cantante e il conduttore televisivo di un  programma musicale della Rai (X Factor). Era in lizza per partecipare al Festival di Sanremo di quest'anno, ma è stato depennato dalla lista per certe sue dichiarazioni sull'uso di cocaina. La cocaina e Sanremo non vanno d'accordo e dunque Morgan il festival se lo guarderà in tv invece di parteciparvi. Ammetto di non conoscere il personaggio e di averlo intravisto qualche volta smanettando con il telecomando. Spero che non conoscere Morgan (e dunque non apprezzarlo nella sua dimensione artistica) non sia una cosa grave .
Perchè ne parlo? Qual è il problema? I nodi sono più d'uno: il fatto in sè; le reazioni dell'opinione pubblica e dei media; la conseguente esclusione dal festival.
Andiamo con ordine. Morgan ha dichiarato: "La droga apre i sensi a chi li ha già sviluppati, e li chiude agli altri. Io non uso la cocaina per lo sballo, a me lo sballo non interessa. Lo uso come antidepressivo. Gli psichiatri mi hanno sempre prescritto medicine potenti, che mi facevano star male. Avercene invece di antidepressivi come la cocaina. Fa bene. E Freud la prescriveva. Io la fumo in basi (modalità di assunzione nota come crack, ndr) perché non ho voglia di tirare su l'intonaco dalle narici. Me ne faccio di meno, ma almeno è pura. Ne faccio un uso quotidiano e regolare".
Che Morgan fumi crack sono fatti suoi; che ne faccia aperta apologia in pubblico invece a mio avviso è un fatto molto grave in sè e soprattutto altamente diseducativo verso le fasce più deboli e fragili della popolazione (adolescenti e giovani!) che segue questo tipo di personaggi. "La cocaina fa bene", l'ha detto Morgan, quello della televisione, basta fumarla e non sniffarla"!. E la frittata è fatta. Il messaggio pericoloso, fuorviante e criminale è arrivato a destinazione.
A me che Morgan si fumi di tutto e di più non interessa (se resta un fatto personale), mi interessa invece, e molto, che il suo atteggiamento e la sua scelta di vita non diventino un esempio devastante per altri soggetti in virtù del ruolo indiscutibilmente pubblico che riveste. Tant'è vero che le sue affermazioni non sono state fatte in privato al bar tra compagni di gozzoviglie, ma sulle pagine di un noto mensile e dunque all'attenzione di qualunque lettore e dunque di tutti.
Secondo problema. In seguito alla decisione  di escluderlo da Sanremo (da parte della Rai, credo) si sono levati cori di protesta per l'ipocrisia della decisione da parte di personaggi dello spettacolo altrettanto noti, opinionisti, maitre à penser, giornalisti, tuttologi, e compagnia briscola. Naturalmente rilevati e amplificati dai media di ogni tipo. Insomma reagire di fronte alla apologia esplicita della cocaina (o crack) sarebbe un atto ipocrita e dunque, come tale, censurabile. Siamo al ribaltamento dei fatti, della ragionevolezza e del buon senso. Siamo alla follia pura. Sarebbe ora di dire basta a questi malpensanti à la page che tutto tollerano e tutto minimizzano cercando di svicolare sistematicamente dai veri problemi. Sono arcistufo di questa mentalità idiota mascherata di tolleranza e libertà che invece altro non sono che demenza sociale e ideologica, stupidità assoluta. Ognuno è libero di farsi del male come meglio crede (forse ed entro certi limiti), ma non è tollerabile che ne faccia l'apologia ai quattro venti in pubblico. Chi ha parlato di ennesimo cattivo maestro ha pienamente ragione. Ce ne sono già troppi in giro.