mercoledì 29 dicembre 2010

La dignità del dolore

appello dei genitori restituiteci nostra figliaAd oltre un mese dalla scomparsa di Yara Gambirasio, la ragazza tredicenne di Brembate di Sopra, anche i genitori escono allo scoperto. Lo fanno nel corso di una breve incontro con i giornalisti, accompagnati dal sindaco di Brembate, nel corso del quale hanno letto un breve comunicato scritto a mano, evidentemente di getto e con il cuore. Fulvio e Maura Gambirasio, tenendosi per mano, chiedono ai rapitori di lasciar libera Yara essendo convinti che sia ancora viva, ma tenuta prigioniera chissà da chi e chissà perchè.
Implorano i rapitori di restituire loro la figlia per poter riprendere a vivere nella normalità quotidiana. I genitori dicono che hanno basato la loro famiglia sull’amore, sul rispetto, sul quieto vivere. Ma non accusano nessuno, desiderano semplicemente che la figlia Yara possa ritornare ed essere restituita così all’affetto della sua famiglia.

Come non commuoversi di fronte alla composta dignità di queste due persone chiamate ad una prova così terribile e dolorosa. Come non andare con la memoria alle immagini urlate e strombazzate senza ritegno del delitto di Avetrana (Sarah Scazzi) e di altri casi similari? L'uno all'antitesi dell'altro. Due mondi così diversi e così distanti da non sembrare nemmeno espressioni dello stesso paese, l'Italia. Un paese ormai abituato a vivere come in un grande reality show dove tutto fa e deve far spettacolo e assumere toni e forme eclatanti per arrivare a far parlare di sè. Brembate non è Avetrana, al punto che i due genitori sembrano quasi due marziani, capitati per caso sulla terra. Ma sono persone vere, come tante altre per fortuna, che vivono il proprio dolore senza bisogno di mostrarlo in tv, con dignità e riservatezza. Che il destino sia lieve e pietoso con loro e con la piccola Yara.

Ecco il testo integrale dell'appello, poche semplici righe che toccano il cuore : «Noi siamo una famiglia semplice, siamo un nucleo di persone che ha basato la propria unità sull'amore, sul rispetto, sulla sincerità e sulla solarità del nostro quieto vivere. Da un mese - prosegue l'appello - ci stiamo ponendo innumerevoli domande sul chi, il che cosa, il come, il quando e il perchè ci sta accadendo tutto ciò. Noi non cerchiamo risposte, noi non chiediamo di sapere, noi non ci assilliamo per capire, noi non vogliamo puntare il dito verso qualcuno, noi desideriamo solo, immensamente, che nostra figlia faccia ritorno nel suo mondo nel suo paese, nella sua casa, nelle braccia dei suoi cari. Noi imploriamo la pietà di quelle persone che trattengono Yara chiediamo loro di rispolverare nella loro coscienza un sentimento d'amore; e dopo averla guardata negli occhi gli aprano quella porta o quel cancello che la separa dalla sua libertà. Noi vi preghiamo, ridateci nostra figlia, aiutateci a ricomporre il puzzle della nostra quotidianità, aiutateci a ricostruire la nostra normalità. La gente ci conosce bene, non abbiamo mai fatto o voluto il male di nessuno, ci siamo sempre dimostrati come una famiglia aperta, trasparente e disponibile verso gli altri e non meritiamo di proseguire la nostra vita senza il sorriso di Yara. Grazie».

lunedì 27 dicembre 2010

Film visti. Radical chic in crisi

La bellezza del somaro

Regia di Sergio Castellitto. Con Sergio Castellitto, Laura Morante, Enzo Jannacci.

Voto: 2 su 5
 
Poteva essere l'occasione per trattare temi seri e attuali con la mano leggera della commedia, sobria, elegante e sottilmente acuta. Invece no, il risultato è la solita mezza farsa troppo urlata in chiave caciarona-porchettara alla romana. Stile, sobrietà, leggerezza, argutezza narrativa e tutto quello che poteva essere e non è stato. In poche parole, questo è La bellezza del somaro, laddove per somaro deve intendersi quella istintività un po' ignorante (nel senso positivo del termine), che arriva al cuore dei problemi con l'intelligenza, il buon senso e l'istintività, lasciando da parte sciocchi intellettualismi e artefatte costruzioni mentali.
Una banda di esaltati, ecco cosa sembrano di primo acchito i protagonisti di questo film di Castellitto. Non si salva nessuno, dal primo all'ultimo, protagonisti e personaggi collaterali. Denominatore comune: la mania di essere politically correct; di fare-agire-pensare-parlare nel modo giusto e moderno e con un manuale di psicologia impresso nella testa come dogma assoluto; rispettosi di tutti ma rispettosi di niente; aperti a tutto, non prevaricatori e non autoritari fino all'eccesso nei confronti dei figli, ma di fatto sostanzialmente incapaci di dare loro un indirizzo di vita concreto e certo; agiatamente borghesi e benestanti fino al midollo con tanto di casale rustico in Toscana e alto tenore di vita, ma pronti -a parole- a dichiararsi invece radicalmente antiborghesi; radical chic con il terrore di invecchiare che coltivano il mito dei "figaccioni" anche dopo i cinquanta; con l'amante giovane e bonazza, ma innamorati persi della moglie; con il chiodo fisso della "canna" che fa tanto "giovane e ribelle", panacea di una gioventù ormai persa soprattutto nella mentalità ancorata a schemi vecchi e obsoleti; con la mania delle citazioni dotte e intellettuali quale sfoggio di cultura à la page; bisognosi di uno psicoterapeuta di pronto uso per ogni evenienza o difficoltà della vita... Con questo bagaglio di soffocanti attributi ecco i protagonisti del film che dipinge impietosamente una generazione di quasi-cinquantenni radical chic in crisi nera, perdenti e di inconcludenti, incapaci di crescere e diventare pienamente adulti.
La loro conclamata e sbandierata modernità e apertura mentale viene messa in discussione dall'arrivo del nuovo fidanzato della figlia diciassettenne della coppia protaginista (Castellitto-Morante) che si rivela essere un canuto settantenne dall'aria tranquilla e inoffensiva, che ben presto però dimostra di saperla lunga sulla vita e sulle persone. Una specie di filosofo che gira con un bonsai sotto il braccio. Molto più aperto alla vita di quanto si vantino i genitori quasi-cinquantenni radical chic e tutta la loro sconclusionata combricola di amici. In certi casi -ahimè-  non si va oltre alla macchietta di maniera.
Così il ponte di Ognissanti da passare allegramente tutti insieme nel casolare in Toscana, in una gestione assembleare dei tempi e dei modi di vivere, diventa un momento di scontro con la realtà che viene sbattuta loro in faccia senza riguardo e senza preavviso. Un fulmine a ciel sereno in seguito al quale tutti vanno in crisi, membri della famiglia, amici e conoscenti/estranei aggregati alla bella compagnia (il paradosso è che la moglie Morante in quanto psicoterapeuta si porta dietro per il ponte un paio di allucinati pazienti "per non creare in loro alcuna crisi di abbandono"...) e perfino l'amante ripudiata di Castellitto inviperita per essere messa da parte senza tante storie.
Insomma un film eccessivo in tutto, dove la vicenda nasce, sia pure sopra le righe, in maniera per la verità interessante arrivando addirittura a citare, nel momento in cui la figlia presenta il "fidanzatino" in famiglia, il famoso "Indovina chi viene a cena" (due premi Oscar nel 1968 con i grandi Spencer Tracy, Katharine Hepburn e Sidney Poitier). Salvo poi buttare tutto in caciara troppo gridata ed esasperata con le solite macchiette romanesche già viste e riviste troppe volte. Radical chic alla vaccinara, verrebbe da dire.
Un peccato, perchè l'argomento era di per sè molto stimolante sia per la tematica che per il contesto in cui si svolgeva e poteva essere affrontato in  maniera ben diversa, pur mantenendola nei binari della commedia. Invece Castellitto (regista) e la moglie Mazzantini (autrice) si buttano sulla commedia in maniera piuttosto greve e prevedibile, finendo per fare del male a se stessi e al film.
Un discorso a parte per il senex della situazione, Enzo Jannacci, chiamato alla prova cinematografica nel ruolo del fidanzatino settantenne. Un personaggio dallo sguardo stranito (perfetto per il vero Jannacci) che  in quell'ambiente roboante e caciarone è chiaramente del tutto fuori posto, tant'è vero che alla fine leva sommessamente le tende e il disturbo andandosene in punta di piedi non senza aver lasciato intendere che tra lui e la ragazzina non ci sia mai stato nulla di più di un fuggevole bacio. Signori si nasce.

sabato 25 dicembre 2010

Una brutta storia

Nella retorica del Natale, quando tutti dovrebbero essere più buoni, c'è una notizia pubblicata sui giornali locali della mia regione che va in controtendenza. L'antefatto della vicenda risale a qualche mese fa, ma l'epilogo, tragico, è arrivato proprio in questi giorni natalizi. Andiamo con ordine.

Succede che in un sobborgo di Padova, un certo giorno nella piazza principale compare uno striscione scritto alla meno peggio, con questo testo: "Luisa F. ucciderà sua sorella se non dona". Dopo qualche interrogativo e le comprensibili perplessità iniziali la vicenda viene a galla. Paola F. è malata di leucemia e per cercare di guarire dovrebbe sottoporsi ad un trapianto di midollo, a condizione che vi sia compatibilità con il donatore per evitare il rigetto. La migliore compatibilità, è risaputo, c'è tra consanguinei, quindi il donatore è da ricercare nella ristretta cerchia di familiari stretti. L'unica candidata possibile è la sorella Luisa, che però rifiuta il trapianto nel timore di subire delle conseguenze fisiche dannose o dolorose per se stessa. Niente donazione, niente trapianto. Gli altri familiari di Paola non la prendono bene ovviamente. E' vero che non vi è garanzia assoluta che il trapianto riesca anche nel caso di donatore consanguineo, ma le probabilità di successo sono enormemente superiori rispetto al donatore non consanguineo. E' mai concepibile che si possa rifiutare la donazione alla propria sorella malata sapendo che ciò significa destinarla a un salto nel buio con un donatore estraneo?
Il fatto esce dalla piccola comunità padovana ed ha addirittura risonanza nazionale finendo sui giornali e in tv, dove, come al solito, non si cerca di meglio che azzannare questo tipo di notizie per specularci sopra sfruttando l'onda emozionale della vicenda. Ricordo di aver intravisto di sfuggita una trasmissione domenicale della solita Barbara D'Urso su Canale 5 con tanto di collegamento via satellite e interviste varie in diretta. Ma al di là delle jene strappalacrine della televisione, quella di Paola e della sorella Luisa rimane una vicenda drammatica e inquietante su cui riflettere.
Inutile dire che le reazioni sono state molteplici e principalmente suddivise tra accusatori e difensori della scelta di Luisa nel rifiutare la donazione. Come sempre si sono formati due partiti del sì e del no, del contro e a favore. Con tanto di gruppo sull'onnipresente Facebook che ha fatto da centro di raccolta, nel bene e nel male, sia delle reazioni sdegnate che delle ricerche del possibile donatore.

E siamo giunti all'epilogo di questa vicenda. Il fatto che coincida proprio con questi giorni natalizi intrisi di mieloso buonismo, di retorica consumistica dei regali ad amici e parenti più o meno cari  a dispetto dei valori cristiani che invece ispirano (o dovrebbero ispirare) il vero Natale, tutto questo è reso più drammatico e stridente. Paola è morta qualche giorno fa in seguito ad una crisi di rigetto dopo il trapianto eseguito da un donatore non consanguineo. Un donatore rintracciato forse in Germania grazie alle banche dati internazionali che mettono a disposizione di chi ne ha bisogno i dati cruciali per stabilire una possibile compatibilità. Paola F. è morta a 57 anni in Nuova Zelanda dove risiedeva da tempo. Ha finito la sua lotta con la leucemia, perdendola.

Esiste un obbligo a donare? Nel vasto serbatotio della morale e dell'etica esiste qualche regola che imponga un gesto di generosità quando il donatore è dubbioso al punto di tentennare? No, certamente. Nessun obbligo pende sul potenziale donatore ed egli si regola e decide secondo coscienza. Dunque la scelta del rifiuto di Luisa va rispettato, sia pure a denti stretti. Sia pure non condividendo la sua scelta, ma senza giudicare nulla e nessuno. Ma rimane comunque una brutta storia, comunque la si veda e la si valuti. Come non pensare al dolore per la morte di Paola e alla sua vita interrotta, ma anche alle angosce della sorella Luisa a cui il no deve essere costato non poco, nonostante tutto.

Che brutto Natale passeranno i suoi familiari di Paola. Ma non voglio neppure pensare a quello che trascorrerà sua sorella Luisa. Sarà comunque per tutti un Natale triste, perchè l'angoscia di fronte al passaggio dalla vita alla morte non fa eccezioni.

venerdì 24 dicembre 2010

Auguri

"Non vi è nulla di più triste che svegliarsi la mattina di Natale e scoprire di non essere un bambino"

(Erma Bombeck, 1926/1996)





Per ritrovare lo spirito, lo sguardo e l’innocenza di quando eravamo bambini
Volpe56

giovedì 23 dicembre 2010

martedì 21 dicembre 2010

Libri. XY o dell'ordinario impossibile

XY
di Sandro Veronesi

Trentino, Italia. Nel bosco adiacente a Borgo San Giuda (San Giuda Taddeo, protettore delle cause impossibili, non il Giuda Iscariota traditore di Gesù) si verifica un'orribile eccidio. Undici persone sono uccise e una bambina è scomparsa. La comunità tranquilla e sonnacchiosa di montanari trentini ne rimane sconvolta al pari dell'intera opinione pubblica nazionale. Si scatenano i mass media e il piccolo borgo montano di una cinquantina di anime e un prete viene altrettanto sconvolto dall'arrivo di orde di giornalisti e di curiosi. Nel frattempo una giovane psichiatra ed ex sciatrice di alto livello si sveglia nella vicina Cles con una inspiegabile ferita ad una mano, lì dove quindici anni prima si era tagliata affettando maldestramente il pane. Il mistero si infittisce.
Questo è l'inizio strepitoso del libro che per qualche decina di pagine lascia intravvedere, per le modalità della strage e i fatti ad essa connessi, risvolti romanzati illimitati ed imprevedibili. Ma ben presto, quando si delineano alcuni particolari specifici delle morti, il lettore si rende conto che il castello iniziale è talmente impossibile che non può essere sfruttato a lungo nel prosieguo del libro. E infatti il libro devia radicalmente, abbandonando il mistery per fluire ad una introspezione di personaggi e situazioni molto sofisticata e intellettuale. La chiave di tutto sta nel taglio estrememente improntato all'analisi psicologica e psicanalitica di tutta la vicenda. Tutto, da un certo momento in poi, nel libro diventa occasione e pretesto di analisi psicologiche. Un'orgia di analisti e terapeuti. I personaggi ragionano e si muovono in questa chiave e il libro diventa noioso e per certi versi deprimente. Vero è che personalmente provo una diffidenza istintiva verso tutto ciò che "puzza" di psicanalisi, di psiciologia esasperata e di strizzacervelli usati come il prezzemolo, ossia in tutte le salse, ma grande è stata la caduta verticale del mio interesse verso il libro. L'ho lasciato lì per qualche giorno, impantanato in dotte e intellettuali riflessioni e masturbazioni mentali, per poi riprenderlo solo per vedere come andava a finire. Faccio un esempio, giusto per dare un'idea di cosa intendo dire. I protagonisti del libro sono due, Giovanna la ex sciatrice-psichiatra e don Ermete il parroco del borgo montano. Ad un certo punto lei (un tipetto che non esita a definire "maschio immaturo" il suo ex compagno lasciato dalla sera alla mattina che ha la grave colpa di non accettare la sua decisione come se niente fosse) smarrisce il suo telefonino, dimenticandolo sul bancone della farmacia del paese. Una volta ritrovato, la sua riflessione è che del fatto (cioè del telefonino smarrito) dovrebbe parlarne al suo terapeuta e "lavorarci su". Allucinante. Come dire che ogni cosa, ogni avvenimento nella vicenda ed ogni personaggio sono visti ed affrontati in chiave psicologica e psicanalitica. Esasperante, almeno per i miei gusti. Il che non è del tutto un'invenzione di Veronesi specifica per il suo libro, ma credo che possa essere un certo atteggiamento mentale (una moda? un clichè?) abbastanza diffuso in certi ambienti intellettuali o pseudo intellettuali. La psicanalisi sempre e ovunque. Insopportabile.

Ma cosa vuole dirci Veronesi con questo suo XY? Che messaggio vuole mettere in campo? C'è molta carne al fuoco, sotto questo aspetto. Intanto la scelta del titolo può essere interpretata come l'unione e contrapposizione di due opposti: il bene e il male, il maschio e la femmina, l'inzio e la fine, Dio e Satana... Certo è che l'eccidio da cui prende le mosse il racconto è qualcosa di talmente impossibile che la pista dell'indagine deve essere abbandonata non potendo dare alcuna parvenza di razionalità (e quindi indagabile e analizzabile) a quanto accaduto. Preferisco evitare di scendere in dettagli, ma assicuro che è un guazzabuglio diabolico. Altrettanto vero è che l'impossibile descritto è materia della cronaca di tutti i giorni. Quante volte ci capita di pensare "ma come è possibile che succedano cose del genere" leggendo i fatti cronaca quotidiana? L'orrido della porta accanto, l'evento raccapricciante e sconvolgente della nostra quotidianità malata di violenza. Tutto questo è assimilabile all'eccidio nel bosco del Trentino che apre il libro. E come reagiamo di fronte a questi fatti eccezionali ed eccezionalmente feroci? Che strumenti abbiamo per resistere alla facile tentazione di abbassare la guardia e farci travolgere inermi dalla ferocia della nostra società? Con la Fede (don Ermete) e/o con la Ragione (Giovanna, la psichiatra).  ...X e Y, appunto.

Onestamente non so se consigliare la lettura di questo libro. Direi senz'altro di sì (non fosse altro perchè è scritto molto bene), se non avete preconcetti verso l'uso esasperato della pscicanalisi nel banale quotidiano, come invece ho io. Vedete voi...

sabato 18 dicembre 2010

Film visti. Facebook, una montagna di “fuffa”

THE SOCIAL NETWORK
Regia di David Fincher, con Andrew Garfield, Justin Timberlake.

Voto: 3,5

Facebook, un simbolo della nostra epoca. Il film The social network presenta la storia di come sia nato Facebook, di come si sia evoluto e con quale spirito si sia modificato e modellato nel corso degli anni. Mica tanti, parliamo del 2003. Quindi a ben vedere l’altro ieri, considerando di quanto viaggi veloce il mondo dell’informatica. L’ideatore di tutto l’ambaradan è Mark Zuckerberg, all'epoca un brufoloso giovanotto americano, geniale al computer quanto stronzo nel profondo dell’animo. Sotto questo aspetto il film è spietato e aderente alla realtà dei fatti: gliene va reso pieno merito. L’ambiente è quello dei college americani (Harvard), con le loro regole di impenetrabilità e le loro gerarchie sociali precise e granitiche, in cui o sei qualcuno che conta per qualche motivo (reddito, fama, capacità, provenienza sociale) o non sei nessuno e dunque non vali niente. In piena sintonia con la società americana di cui i grandi, rinomati e costosissimi college sono una delle massime espressioni come momento di formazione della classe dirigente. La scalata sociale del geniale stronzetto parte proprio da questa sua sete di apparire, ma anche e soprattutto dalla sua incapacità a costruire un rapporto umano degno di questo nome. Amici, amiche, fidanzate o perfetti sconosciuti, sono tutti accomunati dallo stare alla larga dal genietto informatico che di conseguenza cerca spasmodicamente una rivalsa per tutto quello che non è in grado di costruire ed ottenere sul piano peronale. Nell’autunno del 2003, per sfogare la sua rabbia dovuta all’essere stato scaricato dalla sua ragazza, progetta e mette in rete un sito in cui si può esprimere un giudizio sulla bellezza delle compagne di college. Strafighe o bruttone, promosse o bocciate, …e sotto un’altra. Questo è lo spessore del giovanotto e dell’ambiente da cui prende vita facebook. Con questi presupposti (che non conoscevo affatto prima di vedere il film), viene da chiedersi come il giochetto stupido di affibiare le pagelle alle compagne di scuola sia potuto diventare il fenomeno che è attualmente. E invece… se la memoria non mi inganna, gli iscritti a Facebook ammontano a circa 500 milioni e il valore della società costituita dal brufoloso genietto di Harvard è cresciuta fino alla astronomica cifra di 25 miliardi di dollari. Ed entrambi i dati sono in continua crescita! Successo su tutta la linea di portata planetaria. Dunque, se consideriamo l’essenza di facebook (figa o non-figa), è agghiacciante che qualcuno ci abbia guadagnato sopra montagne e montagne di soldi. Il film ricostruisce le vicende processuali in cui gli ex amici ed ex soci di Zuckerberg intendono rivalersi legalmente accusandolo di aver loro rubato l’idea originaria che diede origine al libro delle facce. Il regista Fincher e gli autori non si schierano per nessuna delle parti ma non risparmiano nulla al neo miliardario nel momento di dipingerlo nella maniera più antipatica possibile. Insomma, antipatico quanto si vuole, ma dal punto di vista legale meglio stare su una prudenziale e rigorosa attinenza i fatti nudi e crudi. Hai visto mai che scatta una causa civile da paura….
The social network è dunque un film che assomiglia molto ad una specie di docufiction televisiva, di quelle che supportano un programma giornalistico allo scopo di romanzare i fatti narrati nell’inchiesta. Ma è anche un film che varrebbe la pena di proiettare nelle scuole affinché i giovani riescano ad avere una visione critica di questo fenomeno. Ma vista l’età media degli iscritti al libro delle facce e la facile accessibilità di cui gode il mondo di internet senza filtri e senza controlli efficaci, bisognerebbe incominciare le proiezioni a tappeto fin dalla prima elementare….

Già, perché in facebook c’è di tutto e di più. Del resto viviamo nel mondo di internet, nel mondo della rete e della comunicazione via computer. Io stesso che scrivo e voi stessi che in questo momento mi leggete utilizziamo un blog, ovvero uno strumento informatico della rete. La rete è principalmente sinonimo di informazione e comunicazione. Così è nata e si è sviluppata fino ad entrare in maniera indissolubile nella nostra vita quotidiana. Informare e comunicare hanno però un utilizzo alternativo, ludico e di evasione, costituito dai cosiddetti social network. Facebook, Twitter, il vecchio Icq degli anni 90, MSN e tanti altri ancora.

Personalmente sono arrivato tardi a Facebook, per semplice ignoranza e un po’ di diffidenza, per l’esigenza di non stare dietro a tutte le novità che vengono sfornate a getto continuo, perché è o era uno strumento inizialmente riservato alle fasce più giovani del popolo della rete. Ma poi ho ceduto anch’io alla moda dilagante e ho aperto una pagina personale. Dopo un primo periodo di ambientazione, di esplorazione e, devo dire di curiosità, la sensazione attuale a distanza di un anno circa, è di grande delusione. Facebook ossia letteralmente libro delle facce, quindi in altre parole “album”, è tutto qui? Un megafono di emerite sciocchezze che circolano di pagina in pagina, salvo poche e rarissime eccezioni che potrebbero trovare (e trovano) altre forme di divulgazione in molti altri modi? Facebook nel suo concreto è l’apoteosi del micro pensiero sintetico con tutte le possibili riserve sul termine “pensiero”. Una sorta di messaggistica in stile sms telefonico evoluto. Un esempio? Tizio diventa amico di Caio; Caio dice mi piace; Sempronia condivide la notizia di Caio che diventa amico di Tizio…. E tutte le facce dell’album contemporaneamente leggono via internet che Tizio diventa amico di Caio… che Caio dice mi piace… che Sempronia condivide la notizia di Caio che diventa amico di Tizio…eccetera eccetera… in un vortice senza fine. Il tutto moltiplicato per milioni e milioni di pagine e di facce collegate tra loro. Certo facebook può anche essere un formidabile veicolo di informazione, ma di fatto il grosso delle comunicazioni (diciamo pure la quasi totalità) è solo “fuffa” e nulla più. D’altronde, visti i presupposti per i quali è stato creato, come aspettarsi altro? Per non parlare dell’uso disonesto e fraudolento di Facebook, dello stravolgimento delle identità degli iscritti attraverso l’uso di soprannomi, pseudonimi o nomi di fantasia o del tutto falsi. Si sta alla buona grazia dell’interlocutore che dice di chiamarsi Elisabetta, ma in realtà è Giuseppe con tanto di barba e baffi. Conseguenza pratica: pedofili e malintenzionati a gogò che si scapricciano su vittime ingenue e indifese…

mercoledì 8 dicembre 2010

Libri. L'alfabetista

L'ALFABETISTA
di Torsten Petterson

Recente esempio del filone scandinavo di romanzi a sfondo poliziesco sull'onda lunga del grande successo della trilogia del Millennium di Stig Larsson. Solitamente interessanti, piacevoli, ben scritti, non solo polizieschi, ma con un certo spessore. Ma, attenzione, non tutto è oro quel che luccica....
Nel tranquillo parco pubblico di Forshälla, in Finlandia, qualcuno ha strangolato una donna, le ha cavato gli occhi e le ha inciso una A sulla pancia. Il detective Lindmark interroga e arresta il fidanzato della vittima, che - messo sotto pressione - confessa l'omicidio. Dopo pochi giorni, però, vengono ritrovati altri due cadaveri. Anche loro sono stati strangolati, sono nudi, senza occhi e con una lettera incisa sulla pancia: la macabra firma di un serial killer.
Messa così, tutto lascerebbe pensare a sviluppi scoppiettanti, a forza di lettere incise a sangue e con tutto l'alfabeto a disposizione... Invece no. Sotto questo aspetto il libro è una delusione perchè dopo non succede più niente che vada ad alimentare la tensione poliziesca. Prende invece il sopravvento l'inserimento e la descrizione accurata e approfondita di personaggi che inizialmente non si capisce che ruolo giochino nel racconto. Anche se poi ogni tessera andrà al suo posto. O quasi. Perchè molto rimane in sospeso, quasi dimenticato e non si capisce che fine faccia e che ruolo debba rivestire, salvo pensare che vi sarà un seguito al romanzo. Infatti da qualche parte ho letto che si tratterebbe del primo episodio di una trilogia. Eddai. Non so se avrà successo e se sarà alla'ltezza dell'illustre precedente di Millennium che ha dato il "la" al filone scandinavo.
Suspence assente, come detto, tuttavia l'autore ci presenta un buon quadro di varia umanità che ruota sulla scena del racconto della fredda Finlandia. Francamente il personaggio dell'investigatore, il commissario  Lindmark, risulta da subito visceralmente antipatico quando conduce le indagini sul presunto colpevole del primo omicidio in maniera arrogante e supponente, con tesi precostituite studiate a tavolino e poi adeguate a forza sul caso.  Un pacchiano errore giudiziario che tuttavia non lo scuote più di tanto, nella presunzione di essere comunque nel giusto. Insomma un poliziotto che va controcorrente rispetto alla moda attuale, molto politically correct. Tuttavia non si riesce a vedere in lui una simpatica canaglia, bensì solo un fascistello arrogante  e supponente. Le cose migliori vengono dai personaggi che si delineano successivamente che l'autore ci presenta uno per volta attraverso dei diari che narrano le loro storie drammatiche e tragiche. Anche qui siamo di fronte solo a tessere del mosaico che lì per lì lasciano alquanto interdetto il lettore, salvo poi collimare a dovere.
Come detto, tutto sembra restare in sospeso e la stessa conclusione del libro giunge quasi a sorpresa, ma senza pathos, senza coup de theatre mirato a risollevare l'apprezzamento dell'investigatore, cosa che pure ci sarebbe potuta stare tranquillamente. Resta comunque antipatico e saccente.
Andrà meglio nel seguito della trilogia annunciata?  Vedremo. Ma prima devo convincermi che ne valga la pena e al momento siamo un po' distanti.

martedì 7 dicembre 2010

Il caso Yara. Giustizia sì, razzismo no!

Mohammed Fikri, il 22enne marocchino fermato sabato su un traghetto diretto a Tangeri e sospettato dell'omicidio della tredicenne Yara Gamberasio non c'entra nulla. E' finito con l'essere coinvolto solo a causa di una errata traduzione dall'arabo di una sua frase intercettata al telefono. Ebbene, la frase incriminata (Allah mi perdoni) è stata derubricata a semplice imprecazione e la presunta fuga via nave era un viaggio programmato da tempo. Dunque indizi traballanti, sospetti, non certezze, nè tanto meno prove. Ma tanto è bastato per sbattere il mostro in prima pagina. Ma tanto è bastato per i bravi concittadini di Yara per innalzare cartelli razzisti contro i marocchini (tutti, indistintamente e genericamente). Cartelli addirittura con stampato un bel bersaglio, giusto per essere chiari ed espliciti su quale fine dovrebbero fare secondo lorsignori i marocchini. Del marocchino sospettato si è saputo prontamente il nome, dei due italiani sospettati invece nulla. Per loro vige la regola del riserbo e della prudenza. Due pesi e due misure. Ma la vicenda della strage di Erba non ha insegnato niente a nessuno? Anche in quell'occasione il marito e padre delle vittime fu additato subito come il responsabile della strage. Tunisino, dunque presunto, anzi probabile, anzi certo colpevole. Salvo poi doversi rimangiare tutto. Anche per Yara il presunto colpevole dato in pasto ai media è stato prontamente individuato nell'extracomunitario di turno... La storia si ripete e i razzisti, tutta brava gente che lavora e paga le tasse, probi ed esemplari cittadini modello, sono sempre pronti ad inalberare i loro cartelli forcaioli. Questa è l'Italia di oggi. Che non si dice razzista, ma lo è. Eccome se lo è.

Povera Yara. Tredici anni, nel fiore della vita. Che fine misera per una ragazzina che si aspettava una vita normale, felice come è giusto che sia e altrettanto giusto attendersi e che invece molto probabilmente ha trovato la morte per mano di qualche delinquente criminale.
Yara di Brembate e Sarah Scazzi di Avetrana, agli antipodi d'Italia, entrambe poco più che bambine, accomunate in una fine tragica della loro giovane e breve esistenza. Ma è inevitabile il confronto tra le due famiglie e i due ambienti. Da un lato ad Avetrana un nucleo famigliare votato in tutto e per tutto alla televisione. Dai genitori alle zie, dalle cugine fino al parente di terza generazione, tutti hanno sfilato in televisione. Prima, durante e dopo il ritrovamento di Sarah. Un fiume in piena di presenze in video, sempre, tutti i giorni, a tutte le ore. Ovunque e su tutte le reti televisive, sui giornali, sui setimanali, alla radio, in internet. Per giorni e settimane, per mesi siamo stati bombardati su Sarah Scazzi e sulle vicende della sua famiglia. Ben altro atteggiamento ha esibito la famiglia di Yara. Un dignitoso e stretto silenzio. Nessun clamore, nessuna intervista, nessuna comparsata. Le barbaredurso e i brunivespa della tv questa volta resteranno all'asciutto e non sguazzeranno nel fango delle sventure della povera gente. Povere bambine.