mercoledì 30 giugno 2010

Simpatico come uno scarafaggio

Paolo Sorrentino è uno dei cosiddetti giovani autori del cinema italiano. Il suo primo film è stato “L’uomo in più” (che non ho visto) con Toni Servillo che ottiene un passaggio alla Mostra internazionale del cinema di Venezia. E' poi la volta di Cannes, nel 2004 con  “Le conseguenze dell’amore” (bello) e nel 2006 con “L’amico di famiglia” (molto meno). La consacrazione come regista arriva con il pluripremiato "Il Divo" del 2008.
Non è un cinema facile quello del rampante e apprezzato regista napoletano. Poco abbordabili e digeribili i suoi film con personaggi al limite del grottesco e spesso anche oltre. Non fa eccezione il personaggio Andreotti, concepito e interpretato in maniera quansi angosciante da Toni Servillo, attore must di Sorrentino. In qualche modo i film e i personaggi di Sorrentino mi hanno suscitato un senso di repulsione appiccicosa,  specie "L'amico di famiglia".  Chiarisco cosa intendo con repulsione appiccicosa. E' quando si fa, si legge o si vede qualcosa che non riesce a piacere, ma dalla quale è difficile staccarsi. Un senso dell'orrido che attira chi ci viene a contatto, invece di respingere del tutto. Pensate al personaggio de L'amico di famiglia o allo stesso inquietante Andreotti. Quasi tutti sono film aventi a che fare con l'ambiente e la cultura napoletana, fatta spesso di mezze tacche border line e liberi pensatori,  espressione di un sapere popolare, ma non per questo meno nobile di altri. Sorrentino ha deciso di fare il salto nel mondo della letteratura con questo libro che non si discosta molto dall'ambiente e dagli umori dei suoi film. Napoletano il protagonista, napoletano il linguaggio usato nella stesura del libro, napoletana l'atmosfera che si respira. Comunque con quel senso di repulsione appiccicosa di cui sopra.
Tony Pagoda è il protagonista. Un cantante melodico, come si definisce lui stesso. Anema e core e lacrime al vento.... Il suo repertorio è iper classico. I suoi cavalli di battaglia che gli danno successo non solo in Italia dove ci sia un briciolo di cultura italiana veicolata dall'emigrazione (per esempio tra italiani d'America, Frank Sinatra in testa...) sono canzoni d'amore che fanno leva sui sentimenti più semplici e popolari: l'amore e il romanticismo e i buoni sentimenti. Per trovare un paragone reale, inevitabile pensare ad un cantante alla Gigi D'Alessio, tanto per intenderci.
Ma Tony Pagoda, grande cantante, "tiene" parecchi difetti. E' un cocainomane dichiarato, un puttaniere conclamato, un disinvolto frequentatore di personaggi di ogni tipo, malaviotosi e non, con cui non ha difficoltà eccessive a rapportarsi, un marito plurifedifrago e via discorrendo. Un personaggio visceralmente antipatico, almeno per quanto mi riguarda. Non certo una simpatica canaglia come all'inizio del libro mi sembrava fosse presentato. Ed è proprio questa ostentazione di malavita e cocaina che non mi è piaciuta affatto. A questo si aggiunga la presunzione di Tony nel giudicare la gente con cui viene a contatto, a sezionarla e classificarla, a voler loro insegnare a vivere, a pensare, a comportarsi secondo i suoi parametri e stili di vita. Insopportabile.
Sorrentino ha della genialità nel suo stile di scrittura e nella sua tessitura del personaggio esattamente come quando si mette dietro la macchina da presa. Geniale, ma non per questo facile da approcciare e assimilare. Nonostante la bravura evidente di Sorrentino (o forse per questo?) è il personaggio stesso di Tony Pagoda che a tutto tondo mi è risultato insopportabile. Si alternano nel libro pagine godibilissime ad altre insopportabili. Nel complesso un libro poco digeribile e forse da riprendere in mano una seconda volta con un approccio più generoso e accondiscendente da parte del lettore. Cioè io. Probabilmente il mio giudizio non positivo non collima con la media di altri ai quali, da quanto ho sentito e letto, è invece piaciuto molto. Pazienza.
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Eroi del nostro tempo

Dico la verità, a costo di passare per cinico e insensibile. Verrebbe da dire "ma chissenefrega"...  Ma la morte di Pietro Taricone è la notizia del momento che tiene banco su giornali e telegiornali e fa a gara con quella della sentenza sul senatore PDL Dell'Utri -condannato a 7 anni di carcere per reati di mafia antecedenti il 1992- . Una condanna a intermittenza: prima del 1992 è colpevole, dopo il 1992 no. Incongruo, irragionevole, assurdo? Ma no. E' la giustizia italiana, bellezza.

Taricone, giovanotto di bella presenza con ambizioni di attore e uomo di spettacolo, è morto in seguito ad un incidente per un lancio con paracadute finito male. Una disgrazia, un incidente fatale e deprecabile, ma che rientra nella casistica di questa disciplina sportiva rischiosa e pericolosa. Casi del genere succedono con periodica ripetitività e nessuno batte ciglio a livello mediatico se la vittima è un povero diavolo qualsiasi. Al contrario, Taricone ha dalla sua quella di essere un reduce della prima serie del Grande Fratello e di averne riportato tutti i possibili benefici in termini di pubblicità e notorietà. Il successo dell'effimero e del nulla, della forma a discapito della sostanza. In effetti come attore Taricone era decisamente "limitato" e come uomo di spettacolo non si sa bene quale fosse la sua eccellenza specifica. Ma sui giornali e in tv se ne parla come della morte di un eroe. Un eroe dei nostri tempi, tempi fatti di nulla, di capacità improvvisate, di belle presenze, frutto di professionali e sperimentati agenti che ne curano l'immagine e le public relations. Et voilà, il personaggio è fatto. Che poi sappia fare poco o nulla, poco importa. Che non abbia capacità particolari o competenze specifiche, fa niente. Dettagli. Ma tanto basta per trattare la sua tragica fine come quella di un eroe, con tanto di lacrimuccia di circostanza delle barbaredurso di turno o dei giornali di gossip che si staranno sfregando le mani per la ghiotta opportunità di incremento delle vendite. Con una notizia così cii campano una decina di numeri almeno... Se a lasciarci la vita fosse stato un tizio qualsiasi non gliene sarebbe fregato nulla a nessuno, amici e familiari esclusi. Ma siccome è un personaggio dello spettacolo tutto va bene, tutto viene amplificato. Taricone santo subito. Taricone eroe di carta. Eroe dei nostri tempi.

Il senatore Dell'Utri invece esulta per essere stato assolto per i reati post 1992, dopo la sua scesa in politica (per legittima difesa, dice lui...). Grande vittoria dei suoi avvocati. Grande sconfitta della pubblica accusa. Ma intanto Dell'utri si ritrova con una condanna a sette anni sia pure non ancora passata in giudicato. Cosa che non gli impedisce di continuare disinvoltamente a fare il senatore della Repubblica italiana. Si sa che la poltrona è dura da abbandonare per rigurgiti etici o scrupoli moralistici... L'eventualità di dimettersi dalla carica non lo sfiora nemmeno, nonostante tutto. Nonostante i sette anni di galera. Ma intanto esulta per lo scampato pericolo, fidando chiaramente in prescrizioni o altre dabbenaggini cavillose che escogiteranno i suoi avvocati.

Come Taricone del Grande Fratello, Dell'Utri è un altro tipico eroe dei nostri tempi. Basati sul nulla o su gambe molli e tremolanti tenute su da avvocati di grido. Eroi di carta, eroi del nulla, dalle più che dubbie capacità.
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domenica 27 giugno 2010

Gargano, gioie e dolori.

Eccomi qua. Una settimana passa in fretta se si è in vacanza. Tutt'altra musica se invece si lavora. Ma non dico nulla che già non sappiate....
Il Gargano è una terra strana, tanto incolore e desolata nell'interno, quanto vivace e colorata sulla costa. Era la prima volta per me, finora della Puglia avevo girato in lungo e in largo solo il Salento (che preferisco). Nel Parco naturale del Gargano c'è la famosa Foresta Umbra, che non ho avuto modo di visitare. Peccato. Una settimana è veramente poca cosa se si vuole tentare di conoscere il territorio. Bisogna accontentarsi di qualche escursione nei paesini circostanti per saggiare le specialità culinarie locali. Si passa da una distesa brulla e semi disabitata che si perde a vista d'occhio tutta uguale con pochissime case, arsa e desiderosa di pioggia per passare repentinamente -tra Mattinata, Manfredonia e Vieste- a paesaggi molto molto pittoreschi, di una bellezza struggente, rocciosi a strapiombo sul mare,  con baie piccole e deliziose dalle acque cristalline sullo sfondo di un mare azzurro cupo. Spiaggette di sabbia e sassi da scoprire una ad una, con pazienza. Su tutto e tutti un vento forte e costante che non concede tregua. Zona perfetta l'entroterra foggiano per gli impianti di produzione di energia eolica. Le pale sono disseminate ovunque e già lungo l'autostrada A14 se ne vedono tantissime. Mi sono venuti in mente gli articoli letti tempo fa sul magna magna che è stato scoperto anche dietro questo business eolico.... Comunque le pale e i tralicci sono enormi. Visti da lontano non ci si rende conto delle reali dimensioni, finchè ai piedi di un pilone di sostegno non ho visto passare un trattore. Tutto ad un tratto le reali proporzioni mi sono state chiare. Incredibile.
Dalla spiaggia di Varcaro nelle serate limpide si vedono le luci della costa di tutto l'arco del golfo di Manfredonia, lo sperone d'Italia, fino a Bari. Almeno secondo il bagnino che ho interpellato. Parlare di bagnino introduce l'argomento strutture ricettive. E qui casca l'asino, purtroppo. La mia esperienza è stata decisamente negativa. La Baia del Monaco, così si chiama il villaggio-residence, non era altro che un camping con dei bungalow in muratura. Niente a che vedere con i veri villaggi turistici dotati di zone comuni, ristoranti e bar in diversi punti. Una fresca pineta tra la zona residenziale e la spiaggia, ma poi più nulla. Una piscina sempre inagibile, un mini market che non vendeva neppure frutta e verdura (in estate è come una bestemmia!), non un barbeçue a disposizione per le grigliate all'aperto. Però del villaggio attrezzato mantiene le caratteristiche formali (tessera club a pagamento, supplementi a pagamento per una serie di servizi promessi ma non realmente offerti). Organizzazione approssimativa e arrancante. Un disastro. Pagamento solo in contanti, le carte di credito impossibili da usare a causa del terminale immancabilmente sempre bloccato "dieci minuti fa...". L'unico misero baretto del camping (senza registratore di cassa...)  era addirittura chiuso in occasione delle partite della nazionale. Tutto fermo, tutto bloccato causa partita. Invece di provvedere di uno schermo adeguato e offrire la visione agli appassionati e magari fare un discreto incasso, il bar chiudeva. Ridicoli e dilettanti.
http://www.viaggiareinpuglia.it/prov/FG/it
Nei giri serali alla ricerca delle specialità culinarie, mi sono spostato tra Manfredonia e Mattinata, passando da Monte S.Angelo. Un paesone caotico il primo, un paesetto piccolo e raccolto il secondo. Di tutti il più bello e caratteristico, un vero bijoux, è Monte S.Angelo a 800 metri in collina, quindi al fresco e con ottima aria. In comune tra loro i tanti, troppi, condomini a 6-7 piani della zona circostante il centro storico, assolutamente stridenti con l'ambiente circostante. Un vero obbrorio. Ottima cena a base di pesce a Manfredonia in centro storico (Piazza Papa Giovanni XXIII), scadente e deludente nel secondo (lungo il corso principale, cuore dello struscio serale del paese). Non amo il pesce, quindi non faccio testo, ma per chi era con me che invece ne va ghiotto, le preferenze sono andate decisamente a favore del ristorante di Manfredonia. C'è di buono che i prezzi sono decisamente abbordabili, almeno rispetto a quelli ai quali si è abituati dalle mie parti. Per i "non pescivori" come il sottoscritto, una abbuffata di formaggi e latticini di produzione locale, di primi semplici e caserecci, di dolci secchi da sgranocchiare con un buon vino dolce liquoroso. Garantisco che ci ho dato dentro...


Una piccola nota. I paesi visitati (Manfredonia, Monte S.Angelo, Mattinata) erano letteralmente tappezzati di bandiere tricolori a sostegno dell'Italia nella sua avventura ai mondiali. Mai visto nulla di simile qui in Veneto. Non c'era balcone o uscio di casa che non esponesse la bandiera. Bello e coinvolgente. La sensazione era di trovarsi in un'altra Italia (vero Bossi?), ancora attaccata ad un elemento simbolico ed unificante che riesca a mettere tutti d'accordo.
Peccato che per i colori azzurri sia andata a finire male... Molto male.
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martedì 15 giugno 2010

Che guazzabuglio! Ma funziona

Il libro delle anime, di Glenn Cooper

Dopo La biblioteca dei morti, Glenn Cooper torna alle stampe nel giro di poco più di un anno con il seguito del libro che tanto successo ha avuto in tutto il mondo. Ne avevo già parlato sul blog, con ampia formula dubitativa sulle qualità letterarie dell'autore, salvo venire smentito dalla entusiastica recensione di Antonio D'Orrico, critico letterario del Corriere della Sera. Punti di vista, il suo è autorevole, il mio no. Tant'è. Ma resto comunque dell'avviso che siamo di fronte a ben poca cosa. Tuttavia bisogna riconoscere che sia il primo che il secondo libro di Cooper hanno la capacità indubbia di avvincere il lettore e di tenerlo lì, inchiodato alla lettura. Ho letto il libro nel fine settimana, anche perchè la scrittura non è impegnativa e la trama è avvincente. Infarcito di luoghi comuni fino alla nausea, in puro stile serial tv americano, Glenn Cooper riesce a lavorare di fantasia in maniera incredibile e anche troppo disinvolta, spaziando a ritroso nel tempo e nella storia andando a pescare addirittura personaggi del calibro di Shakespeare, Calvino e Nostradamus per dare una collocazione e una dimensione alla sua opera. Per cui si salta di continuo dalla narrazione dei fatti contemporanei aventi per protagonista un ex agente dell'FBI in pensione, alle vicende che costituiscono la genesi del mistero in pieno medioevo,  dall'VIII fino al XVI secolo. Di mistero in mistero, di salto in salto si arriva ai giorni nostri e anche più in là, poichè il libro sconfina fino al 2027 con un intreccio che ovviamente non sto a dirvi, ma che intriga non poco e per di più non privo di un fondamento scientifico.
Consiglio di tenerlo presente per una lettura in tutto relax sotto l'ombrellone.

E' tutto. Buon intrigo a tutti.
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domenica 13 giugno 2010

Follett colpisce ancora

Mondo senza fine
di Ken Follett

Diciotto anni dopo I Pilastri della Terra, dieci milioni di copie dopo il successo mondiale di quel libro, Follett ci riporta nell’antico villaggio immaginario di Kingsbridge. E anche questa volta ci racconta una storia di cattedrali e di costruttori geniali, di fede e passione, di guerra e potere, di amore e odio. Monarchi spietati e religiosi corrotti in gran quantità. In mezzo a questo bailamme di violenza e corruzione, un popolo misero che lotta contro la fame e le malattie, prosciugato sistematicamente di ogni suo avere da signori feudali spietati e e monaci parassiti. Un popolo che cerca punti di riferimento nei religiosi abbarbicati sui loro possedimenti, sulle loro ricchezze e sulla loro cultura d'elite che servono unicamente ad autolegittimarsi senza essere realmente al servizio della comunità e dei fedeli. La via d'uscita, l'unica possibile per come emerge dal racconto delle vicende (e confermata dalla storia), sta nella ricerca di autonomia e indipendenza del popolo da ottenere attraverso l'affrancamento dal giogo feudale, dal libero mercato e dal libero commercio e dalla creazione e sviluppo di una cultura laica, non dipendente e vincolata dal dominio oppressivo della Chiesa. I prodromi di una cultra borghese e illuminista i cui germi si stavano di lì a poco sviluppando in tutta Europa, anche sullo slancio di dottrine considerate eretiche e scissioniste (Lutero, Calvino), che avrebbero minato alle fondamenta il potere secolare e temporale della Chiesa. A dire il vero (ed è a mio avviso il secondo limite del libro, dopo la trama "a fisarmonica" espandibile a piacimento di cui dirò più avanti), il libro a volte sfiora spesso l'inverosimiglianza quando si incaponisce a dipingere certi personaggi in maniera troppo sfacciatamente moderna e in anticipo sui tempi. Anacronistico, per lo meno.
Ancora una volta Follett abbandona i confortevoli percorsi che fin dagli anni Settanta lo hanno reso celebre nel mondo, quelli della spy-story e del thriller di guerra, per misurarsi con l’impresa di raccontare al suo pubblico l’epopea di un gruppo di uomini e donne sullo sfondo del Medioevo inglese ed europeo. Se vi è piaciuto i Pilastri della terra non potete fare a meno di leggere questo libro che ne è il seguito ideale. Con nuovi personaggi, essendo ambientato oltre duecento anni dopo il precedente, ma con una linea logica e narrativa identica. D'altronde, squadra che vince non si cambia.
E' un libro di oltre 1300 pagine e avrebbe potuto essere anche il doppio in quanto vi si narrano con dovizia di particolari i fatti che si sviluppano nell'arco di circa una quarantina d'anni. Bastava dilatare il periodo et voilà, ecco che il brodo si allunga. Una trama "a fisarmonica" anche troppo ridondante che sviluppa più situazioni e personaggi che sarebbero bastati da soli ad alimentare materiale per altrettanti romanzi. Qualcosa mi dice che ci sarà un seguito ulteriore...
Anche questa volta il libro offre la possibilità di conoscere particolari della storia inglese (questa volta si tratta della dinastia dei Tudor), spaziando anche in Francia e Italia (...Firenze), che altrimenti sarebbe difficile apprendere. Nelle nostre scuole non si insegnano queste cose, a malapena apprendiamo quattro nozioni della storia rinascimentale e risorgimentale d'Italia, figuriamoci quella dell'Inghilterra o dell'Europa. Di qui a poco mi aspetto che il termine Risorgimento possa diventare tabu' nelle scuole italiane. E coi tempi che corrono e con i governanti che abbiamo nel nostro paese, con ministri che si vantano pubblicamente di non leggere mai libri che non trattino di finanza o economia, la contrazione di programmi ad ampio respiro di ispirazione umanistico-storico-letteraria sarà sempre maggiore e marcata. Basti pensare al boicottaggio delle manifestazioni per l'Unità d'Italia, considerato un evento storico in sè privo di significato, un anniversario inutile, un orpello fastidioso che non merita l'interesse di certa classe dirigente...
Ma questa è un'altra storia.
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Film visti. Il segreto dei suoi occhi

Il segreto dei suoi occhi


Regia di Juan José Campanella, con Javier Godino, Pablo Rago, Ricardo Darín, Soledad Villamil.
Premio Oscar 2010 come miglior film straniero (Argentina).


[Voto: 3 su 5]


Ma quali saranno mai le qualità di questo film giudicate superiori al bellissimo Baarìa del nostro Giuseppe Salvatores, al punto da essergli preferito per l'Oscar? Il film non è male, intendiamoci. Anzi, averne di film così. Specie nella prima parte fino a quando non viene preso l'assassino della giovane moglie del bancario Morales; di lì in poi perde ritmo e asciuttezza narrativa, quasi che abbandonare lo sfondo più prettamente poliziesco facesse perdere lucidità al regista Campanella (per me sconosciuto). Guardando il film ho pensato a quanto poco so o, in genere, si sa del cinema che non sia come al solito quello americano o mittleuropeo. Esiste invece una cinematografia molto evoluta e spesso anche superiore al di fuori di questi due ambiti. In questo senso l'Oscar per il miglior film straniero è un utile strumento di conoscenza. A patto che questi film trovino un distributore per l'Italia. Cosa niente affatto scontata.
Torniamo al film per dire che la vicenda si svolge su due piani narrativi: uno negli anni '70 (circa il 1974) e uno venticinque anni dopo, quindi nel 2000 o giù di lì. I personaggi sono di continuo sbalzati da un piano all'altro supportati da un buon lavoro di trucco per invecchiarli e ringiovanirli al bisogno. La vicenda non è però vissuta con il metodo del flashback tipico (dissolvenze, bianco e nero, ecc.), bensì si passa da una situazione all'altra senza tanti fronzoli o stratagemmi formali. L'Argentina degli anni '70 era quella che si lasciava alle spalle il periodo peronista ed entrava a grandi passi in quel buco nero della democrazia e della legalità sotto il potere dei militari. Il periodo dei desaparecidos e delle contestazioni di piazza finite nel sangue e nella repressione più dura e sanguinaria ad opera delle squadracce della morte colluse e conniventi con il potere ufficiale. In questo sfondo storico e politico si innesta la vicenda di Benjiamin e Irene, due funzionari della magistratura federale argentina, che si trovano ad indagare sulla cruenta morte di una giovane donna, moglie di un mite bancario innamoratissimo della sua bella moglie. Le indagini sul delitto sono prese particolarmente a cuore da Benjiamin che si trova anche ad essere osteggiato dalla incapacità e cialtroneria delle forze di polizia rappresentate in maniera impietosa in un quadretto tipicamente sudamericano. Uno stereotipo, come se una vicenda italiana fosse ambientata tra pizza, mafia e mandolino. Ma evidentemente la realtà dei fatti, come ci viene descritta dal regista -argentino lui stesso-, non dev'essere molto difforme dallo stereotipo classico. Taccio ovviamente il finale del film, per non levare il piacere della visione a chi lo andrà a vedere. Il retrogusto che lascia nello spettatore è che alla fine in un modo o nell'altro la giustizia trionfa. Irene pronuncia ad un certo punto una frase quasi premonitrice, parlando del proprio lavoro come magistrato, che suona più o meno così: Il mio lavoro è è funzionale alla giustizia. Non so se sia la Giustizia (con la G maiuscola), ma è comunque giustizia. Ed è quanto, alla fine del film, succede.
Oltre alle vicende poliziesche e storico-politiche, si innesta nel film un piano di lettura legato alla storia sentimentale -piuttosto intrigante- che si dipana per tutti i venticinque anni della vicenda fra Benjiamin e Irene. Un amore mai dichiarato, ma chiaramente percepito da entrambi i personaggi che, sotto sotto, con garbo e tenacia, riesce a coinvolgere anche lo spettatore. Non male neanche questo aspetto del film esplicitato dal regista Campanella con sguardi e silenzi molto espressivi e grande uso di primi piani. Merita una citazione particolare il bel piano sequenza in esterni ambientato nello stadio della squadra di calcio del Racing. Bello, spettacolare ed emozionante.


Ma sul film resta, di fondo, l'interrogativo iniziale. Perchè preferirlo a Baarìa?
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martedì 8 giugno 2010

Film visti. Prince of persia: le sabbie del tempo

Prince of persia: le sabbie del tempo
Regia di Mike Newell,con Jake Gyllenhaal, Gemma Arterton, Ben Kingsley, Alfred Molina.
Voto: 1 (su 5)

Mai fidarsi e dare retta a chi dice "oggi ho voglia di un film leggero, non impegnativo". Mai farsi trascinare al cinema con questa premessa. Nove volte su dieci va a finire che si vede una ciofeca. E' questo il caso del film in oggetto. Notevoli gli interpreti, di mestiere il regista, avvilente il film. Una trama incasinata all'inverosimile in bellissimi paesaggi che sanno di falso lontano un miglio (effetti speciali). Può un film d'avventura risultare noioso e interminabile? Sì, purtroppo.
La sola cosa rimarchevole è la bellezza della protagonista femminile, tale Gemma Arterton. Non la solita bellona pompata e artificiale, ma bella in maniera semplice e credibile (nonostante l'abbondante trucco orientaleggiante, causa ambientazione). Da rivedere alla prova in performances più impegnative.
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venerdì 4 giugno 2010

Dimonios, forza paris!

Come ogni anno, il 2 giugno, Festa della Repubblica, si è svolta a Roma la parata militare. In ogni comune d'Italia ci sono state commemorazioni grandi e piccole (forse ad eccezione dei comuni governati dalla Lega di Bossi...), ma la parata dei Fori Imperiali sullo sfondo del Colosseo ha un suo fascino unico. Un evento tradizionale, che sempre riesce a suscitare in me una certa emozione, nonostante con le divise non abbia un buon rapporto. Non per niente a suo tempo ho evitato in ogni modo il servizio militare di leva (che allora era obbligatoria). In tutta coscienza e ideologicamente ho un rifiuto delle armi e delle divise militari per quello che simboleggiano. Però riconosco anche dei lati positivi in questo mondo con le stellette e mi riferisco al senso di appartenenza e di unità che sono tra gli elementi qualificanti della cultura militare. Un esercito che non combatte e che non si addestra al combattimento non sarebbe un esercito, e pensare che possa esistere un mondo senza militari ed eserciti è pura utopia. Una pia illusione.  L'Italia stessa, che secondo la Costituzione aborrisce la guerra, non manca di distinguersi in operazioni militari che non sono definite ufficialmente guerra ma che in realtà lo sono a tutti gli effetti. Basta considerare le cose per come sono, senza nascondersi dietro giochi di parole. Proprio l'altro giorno ho citato la notizia dei 29 miliardi di euro spesi in commesse militari per cacciabombardieri ed elicotteri da combattimento. Uno stato che ripudia la guerra si attrezza in quel modo?
Ma torniamo alla parata del 2 giugno. Sono due le considerazioni a margine (molto a margine, ma il blog serve anche per divagare con i pensieri e le riflessioni...) che voglio condividere.
La prima è molto personale e risale a quando ero bambino. A Padova tanti, ma tanti anni fa c'era l'usanza di una piccola parata militare in Prato della Valle (vicino alla Basilica di S. Antonio, per chi conosce un po' la città). Qualche blindato, le jeep (anzi: le Campagnole della Fiat), i soldati che sfilavano, gli alpini, i bersaglieri, i carabinieri in alta uniforme (mio papà che era maresciallo era eccezionale in alta uniforme!)..., ma soprattutto c'erano i carri armati. Fantastiche montagne di acciaio e cingoli sferraglianti che mi mettevano paura al solo avvicinarmi a motore spento. Quando invece passavano rombando in sfilata erano terrore allo stato puro. Eppure quando mio papà mi faceva salire accanto alla torretta da dove usciva la canna del cannone era un'emozione da far scoppiare il cuore. Non potrò mai dimenticare quei momenti di eccitazione allo stato puro. Sono passati ben oltre 40 anni da allora, ero un bimbo da scuole elemntari, ma il ricordo è fortissimo.
La seconda riflessione è su un particolare reparto dell'esercito che ha un fascino unico e particolare. No, non sono gli alpini o i bersaglieri o i parà. Troppo facile, troppo scontato. Senza voler nulla togliere a questi storici corpi, mi riferisco alla Brigata Sassari. Cos'ha di particolare? L'inno, perbacco. Guardo la sfilata in tv quasi solo per gustarmi i pochi minuti in cui i sassarini marciano cadenzati cantando la loro canzone. Il loro inno "Dimonios" (conosciuto anche come forza paris) è veramente molto bello, sia nel testo che nella musica. E' coinvolgente. Parla di orgoglio nell'essere sardi e sassarini, di tradizione e di rispetto per la gente e per la storia della propria terra. E conclude esortando all'unità e ad avanzare tutti insieme, compatti. Un po' come il rugby: sostegno e lavoro di squadra.

Dimonios (forza paris)
per leggere il testo: http://www.assonazbrigatasassari.it/inno.htm
per ascoltare l'inno: http://www.assonazbrigatasassari.it/dimonios.mp3
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mercoledì 2 giugno 2010

Film visti. La nostra vita

La nostra vita

Regia di Daniele Luchetti, con Elio Germano, Raoul Bova, Isabella Ragonese, Luca Zingaretti, Stefania Montorsi, Giorgio Colangeli.
[voto: 3,5 su 5]

La nostra vita... quella delle gente comune, che compra i mobili all'Ikea e passa la domenica con i parenti. Niente week end costosi, niente spese folli, niente lussi o stravizi. Cene di pasta in bianco col formaggino, non sushi o aragosta. La vita di gente semplice e umile per la quale Vasco è un mito e le sue canzoni sono il verbo. Al massimo dopo anni passati a sognare una vacanza, si va in Sardegna, mito estivo per cui mettere da parte i soldi anno dopo anno, ma comprando il biglietto con sei mesi d'anticipo per risparmiare. La nostra vita racconta di gente comune, quella che fa massa, che riempie i centri commerciali il sabato e la domenica, che ha nei figli e nella famiglia i soli veri tesori da custodire. Ma dove c'è la vita c'è la morte. E il film di Luchetti parla inevitabilmente anche di morti, oltre che di vite. La morte di Elena (Isabella Ragonese), mamma di due figli che muore di parto del terzo. La morte di uno sconosciuto rumeno, vittima del lavoro, della precarietà e della sua ubriachezza. La morte "dentro" che colpisce Claudio (Elio Germano) che, rimasto vedovo con tre figli piccoli, cessa di vivere per com'era prima, per come lo abbiamo conosciuto nella prima parte del film (nettamente la migliore) e decide che la cosa per cui vale la pena vivere è la ricerca del successo e del denaro a palate per dare alla sua famiglia ogni comodità. Va via per la tangente e la sua vita -fino ad allora dedicata ai figli e alla famiglia- cambia. Ma la vita è dura e spietata e là fuori c'è una realtà con cui fare i conti. E Claudio scende nell'inferno della sua nuova vita e poi ne risale, con l'aiuto della famiglia e degli amici più veri. Una rinascita dopo la morte.
Elio Germano ha vinto la Palma d'oro 2010 a Cannes per la sua intensa e convinta partecipazione. Una scena che sarà difficile dimenticare è quella della canzone di Vasco cantata a squarciagola al funerale della moglie Elena. Da antologia per il coinvolgimento emotivo che suscita.

L'Italia che esce dal film di Luchetti è drammaticamente vera e reale, fatta di lavoro nero, di immigrati sfruttati, di debiti, di strozzini e di fallimenti.  Un'Italia impegnata in una guerra perpetua per sopravvivere. Un'Italia radicalmente diversa da quella che ci sentiamo raccontare, neanche tanto subliminalmente, dai giornali e dalle televisioni dei nostri governanti secondo cui va tutto bene e l'Italia è un paese ricco e florido. Un'Italia che avrebbe risentito meno di altri paesi della crisi mondiale e che ne starebbe uscendo a grandi passi. Balle. Grandissime balle della classe dirigente che ci governa. E che Elio Germano durante la premiazione alla croisette non ha mancato di denunciare apertamente: "Dedico questa vittoria agli Italiani che sono migliori dei loro governanti".
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martedì 1 giugno 2010

Film visti. La regina dei castelli di carta


La regina dei castelli di carta

regia di Daniel Alfredson, con Michael Nyqvist, Noomi Rapace.
[voto: 2 su 5]

Terza e ultima parte della trilogia di Stieg Larsson conosciuta anche come Millenium. Quasi mille pagine per il libro, circa due ore e mezzo la durata del film. Ovvero la resa dei conti di Lisbeth con il padre Zalachenko e il fratellastro-bulldozer, indistruttibile e insensibile al dolore. Ma non solo. Lisbeth deve combattere contro l'apparato dei servizi segreti svedesi che non si sono fermati di fronte a nulla pur di perseguire i loro scopi. In questa terza parte si svelano i perversi meccanismi della vicenda e si ricostruisce per intero l'intricata e drammatica storia personale della ragazza. Naturalmente con l'aiuto di Mikael Blomkvist, giornalista di Millenium e del suo gruppo di lavoro costituito dai redattori della rivista. 'Della trilogia cinematografica questo terzo film è probabilmente il più debole e meno convincente. Blomkvist sembra quasi avere un ruolo secondario e con lui tutta una serie di personaggi che invece sono importanti nell'economia della storia. Credo che ciò sia dovuto alla necessità di contenere i tempi nel limite delle due ore e mezzo, che già sono tante. Nel libro la descrizione del come e del perchè Lisbeth sia stata perseguitata e ridotta in fin di vita è invece meticolosa e puntuale, con sconfinamenti di tipo quasi storico nel ricostruire situazioni di politica internazionale e di guerra fredda degli anni 60-70. Il film tira un po' via, saltando a piè pari buona parte della ricostruzione, con personaggi che sono appena abbozzati o addirittura eliminati. D'altronde sarebbe stata impensabile la fedele trasposizione dell'intero libro. Il che rende le vicende del terzo film difficili da seguire e piuttosto confuse (a differenza dei primi due). Era quasi fatale che a lungo andare la trasposizione cinematografica non potesse reggere fino in fondo l'appassionante dipanarsi del racconto. Ricordo che al momento di leggere il terzo libro, lo divorai letteralmente. Il film invece procede in maniera un po' sonnolenta fino all'epilogo finale che comunque è molto meno coinvolgente per gli spettatori di quanto non lo sia stato per i lettori, fedeli e appassionati, di Larsson.
Come ben sapete non ci sarà una terza parte perchè l'autore è morto di infarto mentre stava lavorando alla stesura di un quarto episodio (si dice che la vedova abbia in mano le bozze rinvenute nel computer di Stieg). In compenso in America Hollywood si è interessata al fenomeno letterario-cinematografico e un primo film sulla trilogia pare sia in dirittura d'arrivo. Le atmosfere tipicamente nord europee che abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare attraverso i libri di Larsson e dei suoi colleghi scrittori svedesi saranno ben interpretate dagli americani? Riusciranno a trasmettere il pathos del racconto senza infarcirlo di sparatorie, inseguimenti e sangue in primo piano? Il dubbio, forte, c'è...

http://volpe56.blogspot.com/2009/09/film-visti-la-ragazza-che-giocava-con.html