mercoledì 30 settembre 2009

Se potessi avere mille lire al mese...


Anni 40, l'Italia post I° Guerra mondiale e del Ventennio fascista arrancava con fatica cercando di risollevarsi dalla crisi che la attanagliava, che già echeggiavano i primi rumours della II° guerra che di lì a poco avrebbe nuovamente insanguinato il mondo intero. Il fascismo si imponeva in Italia instillando negli italiani il sogno di potenza, di gloria e di ricchezza dell'Impero. La gente sognava una vita agiata e spensierata con mille lire al mese. Così recitava una famosa canzonetta dell'epoca. Con mille lire al mese non si diventava ricchi ma si poteva vivere bene, senza troppi pensieri.
Passano 60/70 anni, cambia il secolo, cambia l'economia italiana e quella mondiale. Cambiano i costumi, la cultura; cambiano gli italiani. Il nostro paese passa dai sogni dell'Impero fascista a quelli del villaggio globale e l'Italia si colloca tra le nazioni più industrializzate del mondo senza l'uso dei cannoni. Si ragiona in termini macroeconomici, di pil, di produzione, di redditività. La finanza e l'economia sono le discipline che dettano legge e impongono la loro supremazia su tutte le altre, sulle arti, sulla letteratura, sulla filosofia. Numeri, non parole. Percentuali, non pensieri astratti. Ma una cosa lega l'Italietta della prima metà del Novecento all'Italia del G8 degli anni Duemila. Oggi infatti il sogno degli italiani è quello di avere 4000 euro al mese. Il criterio è quello di allora, quello delle mille lire. Non ricchi ma senza ristrettezze. Un piccolo sogno da coltivare per sopravvivere alla lotta quotidiana con bollette, affitti, conti, tasse da pagare. Mutata mutandis, le mille lire sono diventate quattromila euro; lo stipendio del benessere di una volta è stato sostituito da una vincita al gioco, ma questi sono dettagli da nuovo millennio.

domenica 27 settembre 2009

Film visti. La ragazza che giocava con il fuoco

La ragazza che giocava con il fuoco
di Daniel Alfredson; con Michael Nyqvist, Noomi Rapace
voto 3 [su 5 ]

Seconda puntata della Trilogia di Millenium di Stieg Larsson. Segue Uomini che odiano le donne e precede La regina dei castelli di sabbia. Non ci sarà una quarta parte, nè in libreria nè al cinema, perchè purtroppo per lui e anche per noi, l'autore è scomparso l'anno scorso in seguito ad un infarto. Ahilui e ahinoi.
Premetto che sono prevenuto verso le trasposizioni cinematografiche di romanzi di successo o anche no. E' raro vedere buoni film tratti da opere letterarie. Il confronto è troppo spesso impietoso. Ma sia il primo che questo secondo episodio fanno eccezione alla regola. Sono entrambi degli ottimi film (il regista non è lo stesso, mentre gli interpreti sì), godibili e apprezzabili anche per chi non abbia letto i tre monumentali tomi dello scrittore svedese. Siamo in pieno territorio poliziesco, con omicidi, stupri, ricatti, sparatorie; abbiamo a che fare con un abile giornalista-investigatore, con un killer spietato e quasi disumano, con una polizia inerme e alquanto incapace, con servizi segreti deviati, con sesso -etero e omo- praticato a piene mani con disinvoltura, con un'eroina eccezionale della quale si riesce ad innamorarsi nonostante la sua antipatia e scontrosità quasi viscerali. Insomma tutti i classici elementi del noir poliziesco, manca solo una perfida dark lady e poi saremmo a ranghi completi . Ma levatevi dalla testa di andare a vedere il solito film di guardie e ladri confezionato secondo i soliti clichè hollywoodiani. Niente da fare. Qui siamo in Svezia, nella vecchia e sonnolenta Europa, non a New York o a Los Angeles, i protagonisti non usano abitualmente il turpiloquio e non si lanciano a vicenda salve di fragorosi fuck you ogni trenta secondi. Insomma, un altro mondo. L'atmosfera è "tranquilla" anche quando la situazione si fa drammatica, la storia riesce ad appassionare lo spettatore anche senza sangue a fiumi o pistolettate che assomigliano a cannonate. Nessuno veste abiti firmati (anzi!) e le donne della storia sono spesso bruttine o sfiorite dagli anni o semplicemente normali, non le solite strafighe del cinema americano. Ma sono vere e assolutamente credibili, nulla a che vedere con le icone cinematografiche a cui ci abitua il cinema americano.
Ma nonostante tutte le diversità di stile e di ambientazione la storia poliziesca funziona, eccome. Assomiglia ad un motore diesel che sale di giri lentamente, quasi a fatica. Ma poi bielle e pistoni fanno i loro lavoro, i tasselli della vicenda si incastrano come in un mosaico e la storia si delinea in tutti i dettagli e in tutte le sfumature, scena dopo scena, pagina dopo pagina, come succede nel romanzo. Trasferire sullo schermo le circa 800 pagine del lavoro di Stieg Larsson non è cosa facile, i personaggi sono tanti e ciascuno è ben delineato sulla carta, con una propria storia, un'identità e una giustificazione all'interno della vicenda; l'intreccio della storia è complicato e si interseca con il primo romanzo, ma sono convinto che sarà apprezzato anche da chi non ha letto nessuno dei tre (e non sa cosa si è perso...).
Fin qui il film e il suo rapporto con il romanzo. Passiamo ad un altro, perchè dal personaggio Blomkvist discende una constatazione piuttosto amara se rapportata alla realtà italiana. Torno alla Trilogia, quella in forma scritta, perchè nel film l'elemento non è ugualmente sottolineato. Il co-protagonista Michael Blomkvist scrive sulla rivista Millenium. E' il campione del giornalismo d'inchiesta. Nel primo romanzo finisce addirittura in galera in seguito alla sua attività di indagine per smascherare dei loschi traffici finanziari da parte di un boss politico. Una figura professionale praticamente sconosciuta in Italia (fatta eccezione per rari casi televisivi), dove il giornalista che indaga alla ricerca di una notizia è scomparso (se mai è esistito) tra i meandri delle veline di partito o è stato asservito e addomesticato da editori-polici-governanti che hanno tutto l'interesse a sotterrare questo filone professionale. In compenso in Italia non mancano i prìncipi della penna, le grandi firme da salotto che sfoderano tutta la loro abilità nel fare da zerbini al padrone di turno, sia sulla carta stampata che in televisione. Inutile fare nomi e cognomi, chi vuol capire ha già capito. Blomkvist si fa rispettare, fa il suo mestiere con onestà e riesce a incutere un sacro timore tra gli indagati semplicemente citando il nome della testata che è sinonimo di verità documentata. Fantascienza pura qui in Italia. I pochi nomi che mi vengono in mente sono quelli di Rai Tre Milena Gabanelli (Report), di Riccardo Iacona (Presadiretta e Annozero). Tutti pericolosamente sul filo del rasoio, tutti a rischio siluramento perchè scomodi. E poi il deserto. Salvo a voler prendere in considerazione il Gabibbo...

P.S.: sul tema del giornalismo d'inchiesta, proprio oggi (29/9) sul Corriere della sera on line c'è un articolo che vale la pena leggere: http://www.corriere.it/cronache/09_settembre_29/lettera-gabanelli-milena-gabanelli_9d055306-acbd-11de-a07d-00144f02aabc.shtml

sabato 26 settembre 2009

Film visti. District 9


District 9
di Neill Blomkampcon, con William Allen Young, Robert Hobbs, Sharlto Copley, Vanessa Haywood
voto 2,5 [su 5 ]
Un bel giorno sbarcano in città degli stranieri, inattesi e sgraditi ospiti. Molto diversi su tutto e per tutto, dall'aspetto alla cultura, dalla lingua alle abitudini alimentari. Dopo il primo momento di stupore, i bravi cittadini temendo per la propria incolumità raccolgono gli stranieri in accoglienti e sterminati ghetti-bidonville (Distretto 9) e li trattano per quello che sembrano ai loro occhi: poco più che animali, salvo però cercare di sfruttarne abilità e caratteristiche per trarne ogni possibile vantaggio materiale. Finiscono anche nelle grinfie di criminali senza scrupoli che approfittano della loro estraneità territoriale e culturale per allargare i loro loschi traffici. Può bastare?
Raccontata così, questa storia può sembrare una ordinaria vicenda dei giorni nostri di mancata accoglienza e integrazione di immigrati extracomunitari, condita da una buona dose di intolleranza razziale. E lo è in un certo senso. Solo che stiamo parlando di cinema di fantascienza e dunque i migranti stranieri sono esseri alieni provenienti da un altro pianeta, simili a gamberoni giganti. Per il resto sono esseri viventi e pensanti che soffrono, vivono, si riproducono, amano i propri figli e muoiono proprio come noi terrestri. E per di più hanno anche molta nostalgia di casa.
Basta e avanza per confezionare una storia interessante e dalle molteplici chiavi di lettura con una costruzione asciutta e senza fronzoli inutili. Niente male.
Attori sconosciuti, regia di mestiere, ingente uso di tecniche digitali per visualizzare gli alieni, discreta suspence. In America ha incassato una barca di soldi. Qui da noi in Italia col "vento che tira" in tema di immigrazione e di accoglienza, temo sarà un fiasco a livello di botteghino.

venerdì 25 settembre 2009

Sogni


Voi credete ai sogni? Quelli veri "da sonno", non quelli metaforici che si fanno a occhi aperti da svegli nel corso delle proprie riflessioni/meditazioni. Insomma a me succede spesso di sognare durante il sonno. Non sempre e non con regolarità. Alterno periodi di grandi sognamenti (passatemi il termine) ad altri di calma piatta. In realtà un esperto direbbe che si sogna sempre, salvo non ricordarsene al risveglio.
Sognare è bello, è una liberazione della mente e della fantasia. Mi piace un sacco sognare. Capita a volte che mi svegli durante un sogno e che la storia in cui sono coinvolto mi piaccia talmente tanto da riuscire a riaddormentarmi riprendendo il sogno da dove si era interrotto.

Torno alla domanda iniziale e mi accorgo che è mal posta o almeno fuorviante. Sognare è un dato di fatto, dare un significato ai sogni invece è una elaborazione personale che si può condividere o meno. I due aspetti non sono dipendenti tra loro. Io sono scettico in materia para-extranormale- esoterica in genere. Mi considero un razionale con tendenze immaginifiche, però devo dire che mi sono successe delle cose in tema di sogni che mi hanno lasciato quantomeno perplesso. Vi racconto un episodio che mi ha inquietato non poco, capitato tanti anni fa.
Avevo poco più di vent'anni, in quel periodo facevo uno sport "leggero" e non impegnativo dopo aver smesso il mio amato rugby. Giocavo a tennis tavolo, o ping pong, detto volgarmente. Me la cavavo abbastanza bene e militavo in una squadra di serie B. Partecipavo ai tornei nella mia regione e mi divertivo non poco. Tra l'altro è stato grazie al tennis tavolo che ho conosciuto quella che sarebbe diventata mia moglie, ma questa è un'altra storia.
Cosa c'entra il ping pong con i sogni? C'entra. Una notte faccio un sogno strano. Mi trovo in una specie di impianto sportivo molto particolare. Pensate ad un palasport e ad una piscina. Sovrapponete il palasport con le sue brave tribune per il pubblico, il parquet per la pallavolo e il basket, gli spogliatoi e tutto il resto... alla piscina. Olimpionica, con spogliatoi, docce, ecc. Strano vero? Un unico edificio che riunisca due strutture sportive così diverse tra loro non è poroprio cosa di tutti i giorni. Anzi.
Nel mio sogno mi trovo sul piano della piscina, con un sacco di vapore acqueo e di condensa sui vetri. Bambini in costume e accapatoio bagnati e accaldati, mamme che li rincorrono per asciugarli. Poi salgo al piano superiore e mi trovo in palestra dove c'è una rete da pallavolo e qualcuno palleggia in allenamento. Mi sveglio. Non ricordo nel sogno cosa ci facessi in quel posto, ma l'ambiente mi è del tutto nitido e ben impresso nella memoria (me ne ricordo ancora adesso a distanza di una trentina d'anni). Mi colpisce la particolarità di quel palasport-piscina.
Qui entra in ballo il tennis tavolo, perchè la domenica successiva è in programma un torneo a cui si è iscritta la mia squadra. Si parte in macchina, la meta è il palasport di una città veneta. Una volta arrivati la prima impressione è che si tratti di un palasport come tanti altri, nulla di che. La sorpresa arriva al momento di entrarci. Appena superato il portoncino a vetri d'ingresso ci si tuffa in una nuvola di vapore acqueo. Il caldo è pazzesco, l'umidità gronda da tutto, si respira a fatica, le lenti degli occhiali si appannano. Ma com'è possibile? Come può essere che in un palasport ci sia un'atmosfera del genere? Ci indicano gli spogliatoi e per arrivarci bisogna scendere di livello rispetto a quello di ingresso. Insomma per farla breve, avrete già capito, al piano inferiore c'è una piscina olimpionica che ricalca la disposizione della palestra del piano superiore del palasport.
Pazzesco. Mai messo piede prima in quella struttura. Mai saputo della sua esistenza. Ma il sogno di qualche giorno prima me l'aveva descritta e anticipata in ogni particolare. Come può accadere una cosa del genere?

E adesso vorrei che qualcuno mi desse una spiegazione.... sono aperto a tutto. Altro che scettico, roba da far accapponare la pelle.

lunedì 21 settembre 2009

Film visti. Pelham 1-2-3


Pelham 1-2-3: Ostaggi in metropolitana


Regia di Tony Scott; con John Travolta (cattivone per contratto, ma che per quanto strilli non riesce a spaventare nessuno), Denzel Washington (al solito, noioso e prevedibile), John Turturro (delizioso poliziotto-pizzaiolo).

Voto: 2.5 [su 5]

Letto il titolo e svelato cosa significhi il numero 1-2-3 (è banale, ma non ve lo dico lo stesso), gran parte del film è svelato e lo spettatore appena un po' scaltro ha già capito tutto. Della storia e del finale. E allora, perchè il voto non troppo basso? Cosa resta del film a prescindere da quanto detto sopra?

Resta materia per addetti ai lavori, ovvero amanti del cinema che apprezzano anche altre componenti oltre alla storia. E sotto questo aspetto il film offre parecchio. Del resto Tony Scott (fratello di Ridley, per chi non lo sapesse) è uno che ci sa fare e non poco. Se non si offende nessuno, lo definirei un mestierante senza il lampo di genio del fratello. In una trama che parla di metropolitane e di ostaggi e dunque prevedibilmente si svolgerà prevalentemente in ambienti chiusi, bui, freddi e cupi bisognava inventarsi qualcosa che riuscisse a rendere sopportabile o magari anche interessante il film. Scott usa almeno due o tre strumenti: un montaggio rapido e a volte convulso; dei ralenti che interrompono ed enfatizzano il ritmo quando serve, tendono a conferire maggior drammaticità a determinate situazioni o a fare da collegamento tra differenti sequenze; una fotografia fredda, cupa e "ferruginosa" (passatemi il termine, please). Di contorno effetti sonori fracassoni che non guastano mai e un fondo musicale adeguato. C'è comunque molto movimento nelle immagini, il che riesce a dare una sensazione dinamica ad una vettura ferroviaria anche quando è ferma. Il che è un merito registico non da poco.

Per il resto, come detto, tutto prevedibile e già visto svariate volte. Ahimè.

Strage di Kabul, due disgrazie in una

Sono morti in sei. Sei soldati italiani mandati in Afghanistan formalmente per portare l'ordine e la pace, informalmente per combattere una guerra non dichiarata, strisciante, subdola, ma non per questo meno violenta e mortale. Questa è la prima disgrazia. Pace all'anima loro, poveri ragazzi.

La seconda disgrazia è data dalla marea di servizi (pseudo) giornalistici, di interviste, di lacrime false, di atteggiamenti contriti, ma solo di circostanza. Una montagna di spazzatura che ci è stata riversata addosso principalmente dalle televisioni di ogni tipo, sia attraverso telegiornali, notiziari o da speciali di taglio giornalistico, ma anche e soprattutto da squallidi programmi di intrattenimento che normalmente ospitano gossip, tronisti rintronati o veline sculettanti. L'operazione lacrima facile è biecamente cinica: si sostituisce la bellona di turno con un congiunto in lutto di una vittima di Kabul e il gioco è fatto. Audience alle stelle, lacrime sparse a secchiate, frasi di circostanza e labbruccio tremulo della conduttrice/conduttore di turno. I più bravi riescono anche a sfoderare una voce rotta da emozione. Complimenti. Tutto a comando, tutto previsto e confezionato, tutto falso.
Poveri soldati italiani.

domenica 13 settembre 2009

Film visti: Segnali dal futuro


Di Alex Proyas, con Nicolas Cage (il solito mestierante), Rose Byrne (per me sconosciuta, ma credibile e molto carina).
Voto: 2 (e 1/2) [su 5]

Riservato agli amanti del genere fantastico/fantascientifico e disposti a prendere per buono tutto ciò che passa per la mente degli sceneggiatori. In questo caso si tratta di profezie su cataclismi e disgrazie varie, per finire niente di meno che alla fine del mondo. Naturalmente i vari personaggi sono tutti tremendamente buoni, belli, intelligenti, dotati, politicamente corretti e di sani principi (a parte qualche bicchierino di troppo per Cage che in questo ha modificato il suo clichè sostituendo le sigarette ormai "out"). Insomma la parte buona e sana dell'America. Il tutto stimola nello spettatore una strana sensazione del tipo: vediamo fino a dove va a parare la storia (che tutto sommato è appassionante), sebbene un po' troppo diluita su due ore di pellicola. Una ventina di minuti in meno avrebbero giovato al film e agli spettatori. Il pre-finale ha un che di dejà vu piuttosto irritante nell'epilogo della vicenda, mentre nel sotto-finale, le ultime immagini lasciano letteralmente senza parole...


Interessante il pistolotto del protagonista Nicholas Cage che da una chiave di lettura interpretativa al film: la vita e il creato sono frutto di determinismo o casualità? Ossia l'eterno scontro tra la logica e la fatalità. Tra una visione pragmatica della vita e la forza del destino che decide su tutto e per tutti. Ogni evento è frutto di una serie di altri eventi precedenti o contemporanei che lo determinano oppure tutto è governato dal caso? Bisogna ammettere che il quesito è tremendamente stimolante, ma non certo per merito del film...

giovedì 10 settembre 2009

Quando un viso racconta


Pausa pranzo. Per me è un momento di relax per staccare temporaneamente dal lavoro, mangiare qualcosa al volo e fumare un buon toscano. Forse ho già raccontato che lo faccio abitualmente ad un tavolino di un bar vicino al mio ufficio dove capita che si fermino persone di vario tipo. Altri lavoratori in pausa , ma anche molti turisti di passaggio. Oggi al tavolino accanto al mio c'era una signora, turista o comunque straniera. Almeno, credo.
Parlava sommessamente con un'altra donna, talmente a bassa voce che non riuscivo a captare nulla. Non che mi interessasse ascoltare i loro discorsi, ma capire che lingua fosse, sì. Per cui mi rimarrà questa curiosità. E non sarà la sola.
L'amica mi dava le spalle e dunque non so nemmeno che faccia avesse, mentre l'altra era proprio di fronte a me. Sulla quarantina, aspetto dimesso, abbigliamento semplice, jeans e maglietta, una sigaretta dietro l'altra. Una persona trasparente, di quelle che si vedono ma non si notano. Almeno non subito, non al primo colpo d'occhio. Persone, uomini o donne che ci sono , ma potrebbero non esserci, non cambierebbe niente. Che brutta considerazione, che brutta espressione, me ne rendo conto. Ma è così. Non mi piace dirlo o ammetterlo, perchè inevitabilmente è facile colorare questo tipo di considerazioni con un connotato negativo o altero, ma ci sono davvero persone e situazioni di questo tipo.
Ero assorto in questi pensieri (il sigaro toscano aiuta molto la meditazione nei momenti di relax), quando all'improvviso quella signora di origine sconosciuta (a pelle avrei detto slava o dell'Europa dell'est) ha alzato lo sguardo e mi ha fissato. Probabilmente in quel momento stava pensando di me esattamente la stessa cosa. O semplicemente aveva avvertito l'aroma del toscano. Mi stava guardando, ma senza vedermi. La sua postura mostrava tutta la sua indifferenza per quanto e quanti le stavano intorno. Però i suoi occhi, il suo sguardo e il suo viso mi hanno fulminato, lì sul posto. La sua espressione, una volta avuta la possibilità di guardarla bene in viso dritta negli occhi, traspariva una infinita tristezza. Occhi chiari, piuttosto belli, tendenti al grigio con un sentore forse di verde (sorry, sono un po' daltonico), qualche ruga, capelli non curati e tirati indietro a coda di cavallo. Non un filo di trucco, ma tanta tristezza in un volto che doveva aver sofferto in un tempo non troppo lontano. Brutta, bella, carina, avvenente, insignificante? Sono le considerazioni che un occhio maschile fa per prima cosa quando incappa in una donna. E viceversa, immagino. Considerazioni normali, automatiche, istintive, senza per questo aver nulla di volgare o di maschilista. Lei non era brutta, non era bella, tantomeno non carina. Ma certamente non insignificante. Un volto invece interessante ed espressivo, questo sì e molto, tanto che mi era difficile smettere di guardarla. Un volto che richiederebbe una foto in bianco e nero e con contrasto elevato piuttosto che a colori per essere ritratto in maniera adeguata. Per fortuna che dopo quell'occhiata fugace non mi ha più guardato e dunque non si dev'essere nemmeno accorta che la guardavo a mia volta. Impegnatissima a parlottare con la sua amica.
Perchè trasmetteva tanta tristezza quel volto? Cosa aveva passato? Cosa le era successo? Che vita era la sua? Di che persone si circondava? Con chi viveva, come viveva, dove viveva? Era moglie, o madre, o compagna, o nulla di tutto questo, semplicemente era e basta? Quell'aura di tristezza scaturiva forse dalla sua solitudine? Che storia avrebbero potuto raccontare quegli occhi così espressivi? Dall'insieme non sembrava che avesse evidenti difficoltà economiche, il suo abbigliamento semplice era normale e dignitosissimo, sicuramente non eccentrico o costoso, come tante altre persone normali che si incontrano per strada. Mai vista prima in quel bar, a quei tavolini. E probabilmente mai più tornerà lì. E cosa ce l'aveva portata, proprio a quel tavolino e a quell'ora? I nostri percorsi in quel momento sono stati come una parabola sul piano delle ascisse cartesiane. Si sfiorano fino quasi a toccarsi e subito dopo si allontanano all'infinito. Ma quegli occhi tristi, quello sguardo, quell'aria dimessa e trasparente che sembrava sgorgare da dentro, dall'anima, dal cuore rimarranno un mistero...
Adieu madame.

Racconti sotto le stelle


Ieri sera l'aria era fresca e stimolante, di quelle che "fanno venire dei pensieri". Dopo la solita cena del mercoledi con gli amici ex rugbysti (ex a causa dei raggiunti limiti di età), tra un grappino postprandiale e un caffè, qualcuno ha cominciato a tirar fuori vecchie storie e vecchi aneddoti ormai quasi sepolti e dimenticati nella memoria dei più. Storie e aneddoti riferite ai tempi passati, ma anche a qualcosa di meno "polveroso" e recente. Bisogna sapere che l'aspetto goliardico e fortemente ludico dello stile di vita dei giocatori di rugby è proverbiale. A differenza di quasi tutte le altre discipline sportive, lo spirito del rugbysta è incline a far cagnara (in veneto: confusione, chiasso, baldoria) anche e soprattutto in compagnia degli avversari, fino a poco prima duramente affrontati sul campo di gioco. Questa consuetudine (un vero rito secolare di origini ovviamente anglosassoni) si chiama "terzo tempo" considerando che i primi due tempi si giocano sul prato erboso e il terzo, successivo, intorno a una tavola imbandita o con una birra in mano. In piena amicizia, of course. Fascino del rugby.

Insomma ieri sera è stato rinfrescato il ricordo di un viaggio in Australia fatto qualche anno fa dalla squadra dei Petrarchi al completo (mogli e fidanzate comprese) per partecipare ad una manifestazione internazionale riservata alla categoria Old players, ossia gli ex, i giocatori con i capelli d'argento che non ne vogliono sapere di attaccare definitivamente e per sempre le scarpette al chiodo e vogliono invece continuare a divertirsi con il pallone da rugby. Il Golden Oldies si disputa ogni tre anni circa, spostandosi da un punto all'altro del globo, perchè il rugby si gioca in tutto il mondo. La scena si svolge a Sidney, Australia sud-orientale, in un grande albergo della capitale dello stato del Nuovo Galles del Sud. E' sera, siamo in piena estate australiana, fa parecchio caldo. Per le strade c'è molta gente che passeggia, chiacchiera e beve. Ma quanto bevono gli australiani...! Il gruppo di Petrarchi non ha voglia di andare a dormire, nonostante l'ora tarda. Davanti all'albergo si forma un bel gruppo che all'improvviso comincia a intonare una vecchia canzone goliardica molto in uso e conosciuta a Padova. L'aria è quella di Va' pensiero... ma il testo è solo in parte quello originale, tant'è che il titolo goliardico è "Quatro pei sul buso del cul", non credo che occorra tradurre, salvo che per pei=peli. Ok tutto bene, si canta in ital-veneto, nessuno degli australiani capisce di che si tratti salvo riconoscere l'inconfondibile melodia del brano del Nabucco di Verdi. Si forma immediatamente una piccola folla allegra e vogliosa di partecipare alla cagnara. Poi succedde che arrivano un paio di taxi che scaricano in albergo alcune persone vestite molto elegantemente, in tenuta da gran sera. Si scopre che sono dei cantanti lirici giapponesi reduci da uno spettacolo appena terminato al famoso Opera House (foto). Soprani, tenori, baritoni... professionisti della lirica. Bastano due microsecondi per riconoscere le note di Giuseppe Verdi. Si fermano ad ascoltare e poi cominciano a cantare anche loro seguendo la direzione del nostro maestro concertatore e capitano della squadra, che però di mestiere fa l'imprenditore nel settore carburanti. Insomma un vero insulto alla musica, ma grande capitano di rugby, ex nazionale e pluriscudettato. I cantanti giapponesi si accorgono ben presto che il testo non è proprio esattamente quello originale scritto con tanto impegno da tale Temistocle Solera nel 1842 (lo sfoggio di cultura è dovuto alla consultazione di Wikipedia). Stranamente alle strofe originali si alternano dei versi strani, che sembrano in italiano, ma forse no. Che strana lingua.

Insomma vi lascio immaginare la situazione. Una ventina di rugbysti in pensione, una piccola folla di australiani un po' brilli, i cantanti lirici giapponesi in abito di gala con papillon e decolleté finemente drappeggiati... a cantare Quatro pei sul buso del cul, inconsapevoli di cosa stessero dicendo. Il tutto sotto le stelle, ben dopo la mezzanotte, in una calda estate australiana.


Fantastico. Ancora ieri sera, a distanza di anni, c'era chi rideva con le lacrime agli occhi. Potenza aggregante del rugby.



P.S.: naturalmente il giorno dopo, a sobrietà ritrovata, il capitano/maestro-concertatore dei Petrarchi ha spiegato ai cantanti giapponesi il mistero di quello strano testo intercalato a quello originale del libretto del Nabucco. Qualcuno si è capottato dal ridere, qualcun'altro è sbiancato in volto....



martedì 8 settembre 2009

Addio, caro vecchio Mike



Il caro, vecchio, Mister Allegria è arrivato al capolinea. Nel bene e nel male, tra una gaffe e un doppio senso, è stato il re della tivvù italiana dagli albori ai giorni nostri. Se n'è andato per un infarto, all'improvviso, proprio quando si apprestava a tornare sulla breccia a 85 anni con un nuovo quiz su Sky.
Se potesse, sono certo che griderebbe "Colpo di scenaaa"!!!

Motocicletta, mon amour (2)

L'ho rifatto. Per la serie "il lupo perde il pelo, ma non il vizio" sabato ho inforcato la mia Caponord e sono partito. E chissenefrega di tutti gli altri problemi che finora mi hanno rallentato o mi hanno proprio fatto cambiare idea. Le mie paure di avere qualche difficoltà lungo il percorso, di dovermi fermare e di non riuscire a proseguire o a tornare indietro... Ma basta, che palle. Con tutte 'ste paure vado in cerca di auto-castrami con le mie mani. L'appetito vien mangiando, dice il proverbio. E l'ho rifatto.

Questa volta la prua è rivolta, sempre a nord, ma in direzione Trentino. Meta: Passo Brocon vicino Castel Tesino (TN). Giornata fresca, ventosa, ma soleggiata. Non una nuvola in cielo, appena lasciata la città. La Valsugana è meravigliosa anche quando è brutto tempo, figuriamoci quando è inondata dal sole. Lasciato il fondovalle si incomincia a salire da Strigno, poi Pieve Tesino (paese natale di Alcide De Gasperi), poi Castel Tesino e infine il Passo Brocon. Paesaggi fantastici con un verde talmente bello e brillante da sembrare quasi irreale. Dipinto da un artista in vena di eccessi cromatici. Poche macchine, solo motociclisti. Una volta era in uso scambiarsi un cenno di saluto incrociandosi per strada. Un gesto con la mano lato frizione o un lampeggio. Una convenzione, una tradizione non scritta, ma fortemente radicata. Io vado in moto da quando avevo diociotto anni e dunque i miei bravi kilometrini li ho fatti... Adesso questa abitudine è quasi scomparsa, non a caso il cenno di saluto arriva o viene ricambiato solo da motociclisti che attraverso la fenditura della visiera del casco lasciano intuire qualche annetto alle spalle. Le nuove leve forse non sanno nemmeno di questa abitudine del saluto. Ne vedo sfilare parecchi e quasi tutti troppo veloci. Ma quanto corrono...? Che bisogno c'è di andare così veloci? Riusciranno a godere del paesaggio, dei colori, del sole? Andare in moto è impegnativo, serve più concentrazione che guidare in macchina. Correre lo è ancora di più. Non capisco questa smania di velocità e non mi adeguo.

Attraverso Pieve Tesino e mi viene in mente De Gasperi. Me lo ricordo quando ero bambino in immagini sbiadite e in bianco e nero. L'alfiere del Partito Popolare, poi DC. Nel paesino c'è un piccolo museo a lui dedicato, ma non mi sono fermato. Adesso me ne dispiaccio, se dovessi tornarci farò una breve sosta perchè un personaggio come De Gasperi se lo merita. Un omaggio dovuto. E lo dico da non democristiano nei tempi in cui lo scudo crociato dettava legge. Anzi. Ma il sapore di onestà che mi nasce spontaneo nel pensare a questo grande statista e al suo ruolo e operato nella storia d'Italia è così forte e così marcato da superare schieramenti e diversità ideologiche, soprattutto se mi metto a fare confronti con i politici e governanti attuali. Davvero mi rincresce non essermi fermato al museo degasperiano. Alla prossima.

Il viaggio prosegue, superato il passo, prendo per una stradina sconosciuta che si imbuca nel bosco. Vado a caso, che è il più bell'andare che ci sia, specie in moto. Sono fortunato perchè la stradina sale e scende a mezza costa nel bosco finchè non mi si apre a lato, tra gli alberi, una piccola vallata, quasi invisibile dalla strada. Mi fermo e mi regalo mezzoretta di sole, disteso sull'erba, la testa appoggiata sull'interno imbottito del casco come fosse un cuscino. Non facevano così i cow boy del vecchio far west sulla loro sella? Non c'è nessuno a perdita d'occhio, solo io, il sole, i prati verdi e un cielo azzurrissimo. Fantastico. Una gran quantità di grilli mi saltano intorno, disturbati da questo umano grande e grosso, motociciclista e per di più anche cittadino che non ha niente di meglio da fare che venire a sdraiarsi al sole proprio lì. Mi accendo un Toscano. Che rompiballe questi uomini....

mercoledì 2 settembre 2009

Motocicletta, mon amour

Era da non so quanto tempo che non lo facevo. Ieri mi sono deciso, complice una mervigliosa e fresca giornata di sole, ho inforcato la mia Caponord (Aprilia ETV 1000, foto accanto) e sono partito. Senza una meta precisa, ho lasciato fare a lei. E lei non mi ha deluso, scegliendo un percorso misto di pianura e di montagna. Prima meta in Valsugana, lungo il corso del Brenta, in uno scenario fantastico. Le acque del fiume prima di arrivare a Bassano e solcare definitivamente la pianura Padana sono cristalline e trasparenti, invitano a gettarvisi dentro, sebbene la temperatura sia quella di un torrente alpino. Poi Primolano e il lago di Arsiè; Feltre e Pedavena con la famosa birra di produzione locale. Belluno, il Piave, Longarone, la diga del Vajont, la Val Zoldana con le vette dolomitiche e il maestoso Civetta (nella foto qui sotto, la vetta del Pelmo illuminata dal sole del mattino). Tutti luoghi che hanno qualcosa da raccontare, di storia patria, di guerra, di morti tragiche, di bellezze naturali, di prelibatezze per il palato. Sì, perchè anche il palato vuole la sua parte, anzi dopo qualche ora in sella alla moto, la reclama. Infatti la Valzoldana e un po' tutto il bellunese verso il Cadore sono la patria del gelato. Longarone, a fondovalle, è sede di una fiera dedicata esclusivamente a questa meraviglia per i peccati di gola ed esporta il gelato nel mondo, soprattutto in Europa e in Germania in particolare, dove le tante gelaterie sono gestite da bellunesi o da figli e nipoti di bellunesi ormai trapiantati.


Poi una bella galoppata in autostrada e il rientro a casa, in una marea di traffico non più turistico, ma commerciale perchè ormai siamo a settembre e le vacanze sono finite quasi per tutti. La Caponord mi ha portato in giro come fossi in una limousine e non ha tradito le aspettative. Il tutto ad andatura rigorosamente turistica, senza correre e senza strafare. La moto è un piacere da gustare con tranquillità, se diventa una corsa contro il tempo che piacere è?